Vorrei raccontare un’esperienza senza cedere alla melassa, ma so già che non sarà facile visto ciò di cui vorrei scrivere: il mio tirocinio di specializzazione al reparto di oncologia del Policlinico. …No, ok. Ad essere autentica, ho il fortissimo desiderio di raccontare non del tirocinio, ma di B., di P. S., di R., di B., di P. e della sua famiglia, della signora coi capelli corti, di T., della famosa V., del turbante della signora N., degli incontri veloci come quelli con G. e con R., dei ragazzi G., G. C. e dei loro fratelli nella stanza di attesa, messi lì forti o che si sentono male; vorrei parlarvi del pensiero a quelli che non vengono più come G.d.L. o la signora S. e le sue figlie, di chi è difficile accostare come G. C., di M. che ti afferra nel corridoio, dei nonnini adorabili come il signor F. e il signor P. Il punto è che vorrei parlare degli incontri… di quello che passa quando stringo la loro mano o assisto a una visita. E di come si possa stare al contempo sia comodi che scomodi appoggiati ai loro lettini mentre fanno la chemio, di come parli con uno e di quanto sia forte che quello accanto, apparentemente dormiente, si incuriosisca e ti chiami con gli occhi per poi stare a parlare mezz’ora. “La terapia è lunga…”, dicono. Ma sai che il punto è il bisogno umano.
Durante questo tempo indefinito della terapia – che indefinito lo è davvero non solo perché non si sa quanto ancora si vivrà, ma anche per i lunghissimi tempi delle attese -, mi è stato insegnato a cucinare (nella stagione giusta!) gli asparagi, le stigliole e l’agnello, a non arrendersi per spirito combattivo e a distinguere tra il fatalismo e la sua maschera; poi mi sono state passate la passione per i puzzle e per i nipotini, l’importanza della fede e il desiderio dell’America, delle zucchine-serpente e di dire “oggi sei più bella!”. Ancora, qui mi piacerebbe far passare come queste persone mi abbiano insegnato a sostare o ad accettare di non poter sostare, specificare che dietro le lettere puntate di cui sopra c’è un mondo e ringraziare chi me ne ha voluto far vedere uno spiraglio, compresa la difficoltà della bruttezza, degli odori malati e delle rigidità; “sono tutta placche”; “mi hanno svuotato”; “speriamo che la Pet vada bene…”. “Forza!”, rispondo ogni volta, cercando di trovare la frase giusta per ciascuno, di leggere negli occhi come posso meglio aiutare. Ma poi la frase migliore è quella più affettiva, che trovi perché ti consentono loro di trovarla, in quel preciso momento in cui accetti il tuo limite di curante e ti ritrovi davanti una persona che tale è anche se con flebo, pic e metastasi. Vedo medici che vanno avanti ore e ore a redbull per esserci per tutti, che fanno chiamate su chiamate e nessuna pausa. Malati che domandano. Altri che “Ho paura”. “Chi non ne avrebbe?”, rispondiamo semplicemente io e le colleghe, strette vicine perché sappiamo che ci prendiamo la responsabilità di naturalizzare quel che proviamo anche noi, quel che proveremmo anche noi se. Ma non possiamo capire fino in fondo. Lo sappiamo. Non siamo noi che abbiamo vomitato, che sentiamo sapori metallici quando mangiamo cannelloni, che abbiamo dolori ovunque. Mi sono sentita piccolissima in questi casi, di fronte a uomini e a giganti che è difficile accettino di non esserlo (penso a un maresciallo elegantissimo sul lettino che faceva le 4 la notte prima della terapia di carboplatino…). Mi sono intenerita di fronte a figli lontani che tornano di corsa e che lasciano tutto per le visite di padri e sorelle; ho pensato a mio padre e a mia madre e alle irredimibili distanze. Ho pensato alla morte e a come oggi non si possa nominare, ma anche alla voglia sincera e onesta che ho sentito a volte di nominarla. Cosa c’è di più onesto? Non stiamo forse parlando con lei e di lei senza mai guardarla? Certo, è spaventante, ed è per questo difficile. E’ come accettare l’impotenza, come dirsi con un sorriso e mentre lottiamo che siamo esseri finiti, che siamo finiti. Penso al signor P., che mi ha rapito una volta di fronte all’accettazione; mi sono fatta rapire ok… quella e diverse altre volte! Non si poteva non passare a stare un po’ con lui, accogliere il suo bisogno di parlarmi dei suoi fiori, dei suoi alunni e degli scarafaggi. Lui è un insegnante di storia dell’arte in pensione; un giorno ha afferrato con idiosincratica delicatezza il filo della flebo parlando di ragnatele da staccare, e mi ha fatto capire di parlare di questo alla moglie. Difficile, e non mi sono vergognata dei miei occhi lucidi. Sicuramente è più facile accontentarsi della “pornografia della morte”: di quella roba clamorosa che le TV-meretrici mostrano per desensibilizzare, per fare appassionare al fetish delle morti in mare o per sollecitare il voyeurisme schiffarato della morte per mano violenta di altri: per farci dimenticare, in sintesi, che la morte NON è un evento sensazionalistico, da testata giornalistica, ma che si muore tutti, che siamo tutti ugualmente finiti e che la speranza sta nel coltivare il senso della vita.
Di fronte a queste enormità, io spero di aver dato conforto e chiavi di lettura, con-tatti e speranze; il signor P. poi spero proprio di rivederlo. Lui e tutti. Mi perdono per questa mia immatura emotività galoppante, che volete… Ma spero di farne tesoro: in questi casi puoi anche innamorarti, dicono Joe Black e Saramago*! E così alla fine tra qualche giorno pubblichiamo un libro**. Un libro, addirittura! Eppure toglietevi dalla testa che questo significhi non commuoversi ogni volta, essere corazzati, prontissimi a tutto. Non so se arriva mai questo momento, forse meglio che non arrivi, perché è il passo successivo all’accettazione: l’indifferenza. Commuovermi, anche adesso, anche da sola, mi ricorda che siamo fragili esseri, che dobbiamo approfittare della vita per coltivare vita, per sciogliere tabù e rendere fecondi terreni mortiferi o insteriliti. Insieme; da soli non accade nulla…
“Sono tutta placche…”. “Sì, ma oggi sei lo stesso bellissima!”.
** “Quando la bellezza cura il dolore. Vivere il morire nella società contemporanea”, a cura del gruppo L’Acrobatica del morire (Mimesis ed.).
madonna…
Ho sempre avuto paura della morte, terrore quasi.
Fin quando, dalla mia prima consapevolezza, corsi ad abbracciare mia nonna: avevo 8 anni ma ho un ricordo ancora lucido e commovente.
Ricordo ancora le sue mani, l’odore dei suoi vestiti e il suo stupore, chiedendomi cosa fosse successo, Dissi, (e al momento mi viene difficile anche scriverlo) che non avrei mai voluto penderla, mi rispose che non sarebbe accaduto subito, ma ci sarebbero voluti altri “milioni di anni”.
Da quel giorno, di milioni di anni, ne sono passati 32.
Se c’è un momento in cui prendi coscienza di ciò, è proprio il momento in cui inizi a piangere (anche senza motivo) pensando alla morte ed alle persone care che lasceranno questa terra.
Mia nonna è morta il 10 febbraio, appena un mese prima dei suoi 90 anni, a causa del suo diabete galoppante.
Nell’ultima visita, appena una settimana prima: parlava dei viaggi fatti durante la sua vecchiaia, di come la sua vita era cambiata all’improvviso a 70 anni, delle letture che non la lasciavano mai sola (quanti libri le ho regalato),dei nipoti, dei pronipoti e di come, nella vita, avesse vissuto tutte le bellezze (e le bruttezze) dei tempi, pur non programmando niente,
La ricordo con un viso sofferente, le mani calde per la febbre, ma un sorriso soddisfatto, credo sia questo il segreto per accettare gli ultimi giorni:
Prima o poi moriamo tutti, ma prima bisogna vivere.
Grande articolo, un abbraccio.
Grazie Marco, ed anche alle tue riflessioni/ricordi che emergono…