Cosa intendiamo quando ci definiamo “italiani”? A cosa colleghiamo l’immagine dello “stivale”, quali sono i tratti culturali che lo definiscono? Quali immagini, miti, personaggi, modelli comportamentali, prodotti culinari evoca l’identità italiana? Cosa identifica l’italiano?
L’italianità fa parte più o meno di tutti noi, siamo all’interno di una struttura culturale che ci permette di attribuirci questa identità, ma proprio per questo bisogna capire cosa realmente questa rappresenta. E’ importante capirlo per dare un senso alle cose, per sapere cosa stiamo simboleggiando. E’ importante perchè richiede una riflessione su ciò che ci circonda. Gli italiani sono: mafiosi, pizzaioli, razzisti, neri, bianchi, bassi, pelosi, con la coppola, il velo nero, simpatici, modaioli, cattolici, piacioni, pervertiti, ipocriti, calciatori e veline? Pongo a voi questa domanda, senza nessuna intenzione di far nascere stupidi stereotipi, ma con la consapevolezza che saprete riflettere sull’Italia e sui suoi abitanti.
Io credo che gli italiani siano tutto quello che hai scritto tu (mafiosi,pizzaioli,cattolici,poeti,santi e navigatori,razzisti,ipocriti,ignoranti,calciatori,veline,lanciatori di Duomi…e chi più ne ha più ne metta), ma anche il contrario.
Credo che,a differenza di molti altri paesi europei, l’Italia è l’unico che non ha mai di fatto raggiunto una vera unità nazionale (conquistata sulla carta molto tardi rispetto agli altri Stati e in maniera parecchio forzata). Per cui ritengo che non possa esistere un concetto di “italianità” se non nella sfera degli stereotipi.
E a maggior ragione,se l’Italiano è quello che organizza le manifestazioni anti-mafia e poi entra a Medicina perché é figlio di… o viene assunto alla Regione grazie ad amici di amici, io non mi sento italiana.
Se l’Italiano è quello che raccoglie fondi per qualsiasi organizzazione aiutaafrica ma poi spara sugli immigrati e da fuoco ai ROM,io non mi sento italiana.
Se l’Italiano è quello che permette che un criminale come Berlusconi diventi Presidente del Consiglio mentre un ragazzo come Saviano non possa avere neanche la certezza di arrivare vivo alla sera, io non mi sento italiana.
E potrei continuare all’infinito.
L’Italia come NAZIONE non esiste,non è mai esistita.
Per riprendere le parole di Giorgio Gaber,IO NON MI SENTO ITALIANA MA PER FORTUNA O PURTROPPO LO SONO. (“Per fortuna” perché metti che nascevo una Tutsi in Rwanda e morivo spappolata a colpi di macete. “Purtroppo” perché qui non morirò spappolata a colpi di macete,ma con le pezze al culo in un regime nascosto tra le righe).
Che cosa è l’identità, e quella nazionale in particolare.
Non è una domanda così infrequente, oggi; direi che è una delle nostre domande principali di esseri (italiani) pensanti, nonostante non si possa affatto dire che l’italiano medio è quell’uomo che si pone delle domande.
L’identità nazionale fa parte di noi, anche se non si sa come. Ci attraversa e ci permea o contiene come una pelle, un po’ come un macrosistema familiare. Il come lo scopri dopo, forse, o addirittura mai consapevolmente, e comunque sempre soggettivamente.
In ambito gruppoanalitico (odi et amo!), la teoria del transpersonale di Foulkes parte dal presupposto che la soggettività ha inizio ed evolve nelle relazioni individuo-famiglia-collettivo (collettivo anche etnografico, istituzionale e politico) e che la mente è costituita da questo insieme di relazioni transpersonali; infatti, “ciò che è all’interno è all’esterno” (Foulkes): il sociale non va più considerato come esclusivamente esterno, ma anche come profondamente radicato all’interno degli individui. E della loro identità.
Ci piaccia o no, siamo tutto e niente quello che l’Italia ci propone, dunque.
Sono italiana e sono acculturata. Ho pochi soldi, e molte idee. Ho una casa, e un genitore su due. Un cane e un gatto, e nessuna automobile. Una quasi-laurea e nessun lavoro. Non ho la tv, ho internet e compro i giornali. Spendo i soldi che metto da parte per libri e viaggi. Spesso sono felice. Sono di sinistra, sono atea, ma ho un grande rispetto per chi non la pensa come me. Sono la figlia di Dante Alighieri, di Pirandello, del Burchiello, di Cecco Angiolieri. So dove si trova Haiti, non chiamo “marocchini” tutti i miei concittadini non bianchi. Sono curiosa, attenta, e gentile. Non ho mai sognato di fare la velina, e non amo i calciatori, tranne che per un paio di ore complessive, ogni quattro anni. E comunque ai mondiali ho provato pena per la squadra che ha perso. Provo sempre pena per gli atleti che non vincono.
Sono figlia di Calvino, Fenoglio, Berlinguer. Sono figlia dei partigiani, di Gaber, di De Andrè. Mi piace l’idea di Garibaldi che prende un po’ di coraggiosi pazzi e parte da Quarto e arriva in Sicilia, per fare “la nazione”. Mi piacciono quei letterati che si prendono a pugni per decidere quale sia la lingua che gli italiani parleranno. Non mi piace Verga quando parla dell’eccidio di Bronte, eppure lo capisco.
Conosco la mia lingua, e i dialetti. Amo sentire cadenze diverse dalla mia, e non mi vergogno di essere facilmente individuabile come italiana, siciliana, palermitana.
Odio i miei concittadini quando lanciano la roba dal finestrino, quando sono razzisti, malavitosi, ottusi, rigidi, mafiosi, ignoranti, volgari. Odio i teatrini che guardano in tv, il tempo che perdono a spegnere il cervello, i soldi che buttano nell’acquisto di beni assolutamente inutili, e troppo costosi.
Amo i miei concittadini quando qualcosa nel loro sangue si ricorda dei Vespri, quando si organizzano e resistono e si ribellano. Quando sono solidali con gli immigrati, che siamo stati immigrati anche noi, con la valigia di cartone, e troppe volte ce lo scordiamo. Quando cercano di far rispettare i propri diritti, senza prevaricare gli altri. Quando fanno quadrare i conti, arrivano alla fine del mese con dignità, senza rubare, senza falsare la dichiarazione dei redditi, senza sfruttare nessuno. Nel completo totale rispetto dell’essere umano, e delle regole che ci siamo dati.
Andrò via dalla mia città, perchè alle volte la odio. Penso anche di dover andare via dall’Italia per poter stare un po’ meglio. E tuttavia spesso non immagino un luogo più bello, o più felice, o più mio di questo.
Io non so dare risposta ai quesiti di Miriam; forse è per questo che non mi sento italiana. Eppure ci ho provato, nel mio piccolo, ma non sono mai riuscita a giungere a una conclusione soddisfacente. Vorrei anche io andar via, se mai ne avrò la possibilità. Ma sono sicura che alla fine questo posto mi mancherebbe, perché in fondo è casa mia e nessun’altro posto al mondo lo è.
Credo, comunque, che il sentirsi “inadatto” (non trovo termine migliore, scusatemi :P) sia una condizione imprescindibile dell’essere umano. Per cui un po’ ci rinuncio pure a trovarle ‘ste risposte.
Lo stereotipo come tale non è mai infondato e come sempre non è positivo.
Più volte in Spagna mi hanno detto che non sembravo un italiano, ma tante altre volte hanno apprezzato la mia italianità: dal modo di cucinare a quello di lavorare alle cose personali.
L’italiano è sinonimo di tutte le cose che hai detto (quelle per cui ci meritiamo i politici che abbiamo), ma anche del peso che la storia ci ha segnato: siamo figli di Dante e di Roma.