Quel vallone sulla 640: storie di ordinario eroismo

di Rosita Baiamonte

“ Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti.” (Martin L. King)

Per ora passo le notti a divorare libri. La notte, più di ogni altro momento della giornata, mi lascia il modo di entrare dentro le parole, di assimilarle, di farle mie, di guardarle ora con occhio critico, ora con benevolenza, e prego che i miei occhi non si chiudano se mi imbatto in pagine di puro ardore civico e sociale.

Erano giorni che lo guardavo, nuovo di cellophane, e anch’esso mi osservava dall’alto della foto in bianco e nero di un giovane uomo, coi capelli neri, lo sguardo fermo ma sereno, la fronte alta e il vestito buono, e quella scritta, “Il giudice ragazzino di Nando Dalla Chiesa” . Mi attraeva come non mai. Chissà perché, poi. Non avevo mai sentito parlare di questo giudice di provincia, quella agrigentina per essere precisi, sonnecchiante, che non fa scruscio1, che vive di turismo, che appare indolente rispetto alla frenesia del capoluogo siciliano, dove i passi affrettati muovono le viscere della terra, dove la vita scorre velocemente e l’unica cosa che sembra rimanere fissa, impalata, è il Monte Pellegrino, che placidamente osserva questo brulicare umano.
La provincia agrigentina invece campa2 del rumore delle cicale che riempiono l’aria, delle trazzere3 sterminate, di valli verdastre , di strade che scorrono lisce, senza intoppi, senza traffico, terre che rievocano immagini suggestive, quelle de Il Gattopardo, delle avventure del Montalbano di Camilleri, e perché no anche quelle di  Sciascia, di una vita che scorre lenta come un fiume quasi secco.

E dentro questa apparente immobilità, la vita di un uomo si conclude in un vallone sulla statale 640, che da Canicattí porta ad Agrigento. Pochi attimi, prima che tutto finisca, prima che la “malarazza” compia l’atroce delitto. L’uomo in questione è Rosario Livatino, nome sconosciuto ai più, compresa la sottoscritta, magistrato in un periodo in cui essere magistrati equivaleva ad essere dei bersagli mobili, gli anni delle terribili stragi di Capaci e via D’Amelio, gli anni degli eroi dei nostri giorni, che di eroico, fondamentalmente, non facevano nulla, se non fare il proprio dovere giorno dopo giorno, instancabilmente, con quello spirito di abnegazione e passione che li contraddistingueva.

Una generazione di “giudici ragazzini”, così come li chiamò l’allora presidente Francesco Cossiga :

“ Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga, è una sciocchezza, a questo ragazzino non affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta!”.

In questi termini si esprimeva il signor Cossiga, e con lui tutta la classe politica di allora, quella che nel libro viene ripetutamente chiamato “il regime di corruzione”, con chiaro riferimento alla DC, al PSI e a una buona fetta di magistratura malata che rigetta i ricorsi, che rigetta le istanze dei pm, che insomma ostacola in tutti i modi l’operato di quella magistratura sana, che crede nella sua funzione primaria di garante della giustizia e non nel servilismo di questa o quella parte politica. Anni difficili, in cui l’impunitá vigeva sovrana, anni in cui la mafia allargava le sue lunghe braccia, proprio in virtù di quell’impunitá caldeggiata e favorita dallo Stato stesso, uno Stato che ha lasciato soli i giudici ragazzini, che ha delegittimato la lotta alla mafia, definendola quasi più dannosa della mafia stessa, sempre che ‘sta famosa mafia sia realmente esistita: c’è chi giurava (e chi giura ancora) che fosse soltanto un fenomeno isolato, che fossero solo bande criminali, senza alcuna rete di collegamento, men che meno con gli alti vertici dello Stato, cosa peraltro ampiamente smentita.

Ed è partendo dalla dolorosa vicenda Livatino che il libro racconta, attraverso un’accurata documentazione e una serie di testimonianze, i casi più clamorosi che hanno afflitto un decennio di vita italiana, volendo vedere chiaro nella perversa convivenza tra poteri legittimi e poteri criminali, i cui confini sono spesso  talmente sottili che quasi non si vedono.

Leggendo il libro ho avuto come la sensazione di un dejavù, (non sto qui ad elencare tutte le analogie con la attuale realtà politica), e più leggevo, più rabbia e indignazione scaturivano, impedendomi di smettere di leggere queste pagine sofferte e lucide, che dipingono un mondo dove sembra utopica l’aspirazione alla giustizia e al rispetto della legge.

E invece alla fine, la voglia di crederci ancora, nonostante tutto, rimane.

1 Rumore
2 Vive
3 Antiche strade sterrate

One thought on “Quel vallone sulla 640: storie di ordinario eroismo

  1. Molto sentito.

    Non so se hai letto Danilo Dolci-Banditi a Partinico. Ne ho sentito parlare. In ogni caso ecco la descrizione che ne fa Ibs, sembra davvero interessante:

    Danilo Dolci, triestino, si trasferì in Sicilia agli inizi degli anni Cinquanta. Voleva partecipare in prima persona alla rinascita del Meridione. Partì, solo, per Trappeto e Partinico, scoprì una miseria impensabile, una desolazione, un abbrutimento, una ignoranza che facevano dubitare di stare in Italia. Stava in mezzo alla gente, la intervistava, la coinvolgeva: fu il primo in Italia a praticare il digiuno per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e inventò “lo sciopero alla rovescia”, che consisteva nel lavorare volontariamente là dove lo Stato era inerte. Così venne riattivata una strada comunale abbandonata. Ma le autorità ritennero che in tale comportamento si configurasse un reato, quello di invasione di proprietà altrui. Per questo Dolci fu arrestato e detenuto per 50 giorni, condotto in manette al processo, e condannato. Per lui si mobilitarono intellettuali come Carlo Levi, Elio Vittorini, Ignazio Silone, Aldo Capitini, Giulio Einaudi e a difenderlo in tribunale fu Piero Calamandrei. In carcere Dolci fu a stretto contatto con tanti poveracci e fu fra i primi a comprendere che la propensione alle attività criminali proprio in quei tenitori che erano dominati dalla mafia, non poteva essere vinta puntando esclusivamente sulla repressione. Bisognava invece creare opportunità di lavoro. Con questo libro Dolci voleva far conoscere a tutti le condizioni in cui versava la popolazione di quella terra di banditi, cioè di esclusi dalla società.

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