L’uguaglianza, l’idea che si sia tutti uguali, davanti a Dio e davanti alla legge, è una gran bella cosa, non c’è che dire. Una delle conquiste dell’umanità, l’ideale fondamentale alla base del concetto di giustizia, ispiratore di rivoluzioni e moti popolari mobilitati in nome di quell’idea che semplicemente afferma: “Io sono come te. Ho il tuo stesso diritto di essere felice e realizzare, o morire provandoci, i miei sogni e le mie aspirazioni. Come te merito di avere la possibilità di avere quel che tu hai, in virtù del fatto che entrambi, sia tu che io, siamo esseri umani. Niente privilegi, niente scorciatoie o corsie preferenziali. Dobbiamo partire dallo stesso punto ed esser trattati allo stesso modo, anche se la strada sarà diversa”. Semplicissimo. E giusto.
Ma è quella strada per forza diversa che mi dà da pensare, e mi fa rivalutare, o comunque ridimensionare, il pur nobile ideale. Perché c’è differenza tra il partire dalle stesse condizioni, avere gli stessi diritti (e doveri), ed essere costretti a percorrere lo stesso cammino, a incontrare, vedere, sentire le medesime cose strada facendo. Ma il rischio è questo, proprio questo. E a questo mi ribello, questo rifiuto con tutta la forza del mio individualismo, con tutto il potere del valore che attribuisco all’unicità e libertà dell’uomo, unico e solo, e non ennesima pedina da manipolare a piacimento.
Non siamo tutti uguali, insomma. Ognuno ha la sua storia, il suo vissuto, le sue esperienze, il suo personalissimo modo di percepire la stessa realtà, e azzerare, livellare questa ricchezza in nome delle generica e fraintesa uguaglianza (che è poi un voler dire che non siamo altro che pezzi insignificanti di un meccanismo più grande di noi), è intollerabile. Così come lo è il confondere due piani diversi e bollare come egoismo il normalissimo e sacrosanto diritto di pensare a sé stessi e dare importanza alla propria persona in primis. Ché mica volere il mio bene significa far del male a te.
Confondere due piani diversi, dicevo. Sì, perchè si tende a far confusione tra uomo come cittadino e uomo come essere umano autonomo, individuo in grado di intendere e volere e di fare le sue scelte. Da solo. Liberamente. Senza condizionamenti esterni. A tutt’e due deve essere offerta l’opportunità di studiare, di essere curati adeguatamente, di poter usufruire di servizi decenti, e questo al di là del reddito o della posizione sociale. In questo siamo uguali. E se tu, ricco, sbagli, e anch’io, povero, sbaglio, dobbiamo essere puniti allo stesso modo. Anche in questo siamo uguali.
Non siamo però uguali anche se entrambi abbiamo lo stesso colore di pelle, o siamo nati nello stesso paese, o apparteniamo alla stessa generazione, o votiamo per lo stesso partito perfino. E se tu studi, ti impegni, metti a frutto la tua intelligenza, e io no, è giusto che ti venga riconosciuto. Si chiama meritocrazia. Se hai quindici anni e ascolti Mozart invece che i Tokio Hotel, e magari detesti il McDonald’s e non ti sballi tra una discoteca e l’altra, non vuol dire che sei sfigato. Se preferisci restartene a casa, tu, un libro e un bicchiere di vino, piuttosto che perdere tempo con gente futile ad imbastire conversazioni ancora più futili, non sei asociale. Se tu sei nato in Italia, e io sono nato in Italia, non è detto che la medesima triade “calcio, pizza e mandolino” governi allo stesso modo le nostre vite. Ma lo stesso vale che tu sia nato in Francia, o in America, o in Cina. Solo perché sia tu che io siamo, che so, del ’90, non devo per forza essere costretto a sorbirmi al cinema “Scusa, ma ti chiamo amore” e a trovarlo interessante anche, o a leggere Moccia e disconoscere il 99,9% della restante letteratura (vera). Tu puoi anche farlo, per carità, nessuno te lo vieta; ma se a me non garba devo pur avere il diritto di manifestare il mio dissenso e cercarmi qualcos’altro da leggere, o vedere, o ascoltare. Sempre che sia reperibile. Allo stesso modo il fatto che molti “giovani” al di sotto dei trent’anni si ritrovino senza un lavoro e ancora nell’esaltante status di studente a carico della famiglia, non fa di loro dei bamboccioni senza palle e senza ambizioni, così come essere giovane non vuol dire passare senza problemi e senza preoccupazioni attraverso giornate fatte di irresponsabilità, divertimento e carpe diem spinti all’eccesso. E se sei donna, devi pure poter detestare il rosa senza per questo sentirti meno femminile o un maschiaccio messo nel corpo sbagliato.
Il paradosso è che siamo uguali quando non dovremmo esserlo, eliminiamo differenze che devono esistere e coltiviamo particolarismi laddove la diversità, il trattamento privilegiato, sono ingiusti e non devono esserci: e così, mentre ci affanniano a inseguire lo stesso traguardo dimenticandoci quello che siamo, mentre andiamo in vacanza negli stessi posti, guardiamo gli stessi programmi in tv, ascoltiamo la stessa musica che si passa alla radio, andiamo a vedere in massa l’ultimo film da tempo annunciato, ci formiamo il gusto estetico ed artistico sui bassi parametri che ci vengono propinati come unica alternativa e accettiamo di essere visti solo ed esclusivamente come passivi consumatori, polli da spennare e nell’attesa chiusi in gabbia, intanto che succede tutto questo, c’è chi si fa le leggi ad personam in virtù (e in barba) della sua carica istituzionale, chi esce di galera perché s’è comprato l’avvocato più astuto, chi non paga il biglietto del cinema, o del teatro, o la cena al ristorante, sempre in virtù della sua carica istituzionale. Alla faccia dell’uguaglianza.
Governare milioni di individui non è possibile, governare una decina di gruppi invece sì, e per questo che ci vogliono omologare.
Pensiamo alla Chiesa, o più genericamente alle religioni: siamo tutti uguali agli occhi del Signore perché siamo tutti egualmente figli divini, dobbiamo comportarci tutti nello stesso modo, avere gli stessi costumi, altrimenti siamo eretici. La religione, anche come mezzo di educazione dei popoli, preferisce omologare perché il compito sarebbe più facile, già avere diversi ordini di frati può essere uno sbattimento.
Stessa cosa in politica, facciamo dei partiti unici e tendiamo al bipolarismo, perché la nostra società si divide essenzialmente in teste A e teste B.
Meno male che la realtà è ben diversa e si può sempre resistere, meno male che certi schemi si possono rompere o per lo meno allargare, come nel caso degli ordini ecclesiastici o delle scisioni partitiche.