Vignetta di Andrea Ventura
Testo di Noemi Veturella
In Piemonte e Lombardia, “crasto” è qualcosa di grosso, abbondante, che proprio per questa sua abbondanza dà piacere. In lingua sarda indica un masso, una pietra pesante.
Nel dialetto siciliano dell’entroterra, il “crasto” è il montone (o ariete), cioè il maschio della pecora. Riferito alle persone, il termine esprime la scaltrezza di qualcuno o la bontà e la cazzutaggine di qualcosa, mentre nel gergo culinario siciliota indica un cibo grasso e unto, di difficile digestione, ma genuino, saporito e appagante.
Tuttavia, in Sicilia la “carne di crasto” è più di una specialità culinaria: è un rituale collettivo praticato soprattutto in simposi campagnoli pasquali/pre-estivi, in cui “l’arrostuta” alla brace della carne costituisce un pretesto di aggregazione sociale che slatentizza la natura più verace-vorace dell‘essere umano. A conferma di ciò, la carne di crasto è tipicamente mangiata con le mani (che ovviamente rimarranno unte!), poiché si ritiene che solo così possa essere assaporata in tutta la sua bontà.
Dunque “crasto” contemporaneamente come qualcuno/qualcosa di notevole, magari anche pinguemente sostanzioso, e per questo in grado di soddisfare palati e papille e recettori cerebrali.
(Il nostro crasto non si mangia, sappiatelo; meglio ascoltarlo.)
(Waiting for…)
attenzione che il nostro crasto soddisfa i recettori cerebrali!
Si infatti volevo sottolineare che il Crasto che ho disegnato è vivo, sorridente e in mezzo al verde!
CRASTO LIBERO CRASTO LIBERO CRASTO LIBERO