Amore. Felicità. Amore e Felicità insieme. Si può dire che siano queste le due paroline, rigorosamente con l’iniziale maiuscola che spetta ai grandi Ideali, che più di ogni altra affascinano e sono bramate da noi poveri esuli della vita in cerca del porto sicuro. Tutti desideriamo essere amati, sapere di essere importanti per qualcuno, così come chiunque, alla domanda ” Cosa vorresti dalla vita? Cosa cerchi?”, al di là dei sentieri da prendere per arrivarci, è sempre a quell’unico scopo che punterà: essere felice, non soffrire, vivere ogni giorno con gioia e tenere lontano il dolore. Le domande son diverse, ma la risposta sempre quella è. A meno di non essere masochisti.
Tutti vogliono essere felici, “godersela”, nessuno vuole soffrire. Tutti vorremmo arrivare all’ultimo dei nostri giorni senza rimpianti e con la vaga consapevolezza di aver fatto quello che andava fatto, senza sprechi, senza la terribile sensazione di aver buttato via quel poco tempo concessoci, accorgendoci proprio alla fine di non aver mai vissuto veramente. E trovarci, come nel meraviglioso finale della novella verghiana, come Mazzarò, che resosi conto di star per morire senza essersi goduto e aver condiviso la sua “roba”, passando anzi la vita tra stenti e privazioni, sempre accumulando, terre su terre, denaro su denaro, di fronte alla tragicità della propria situazione, di una vita buttata alle ortiche e rimasta chiusa all’amore, all’amicizia, alla fiducia nel prossimo, a ogni piccolo e umano gesto che non sia l’accumulo avaro, non può far altro, ultimo disperato gesto di una vita altresì disperata, che girare in tondo per le sue terre in preda alla rabbia e alla furia, a uccider polli e galline, urlando “Roba mia, vienitene con me”.
Questa è una storia che fa venire i brividi. Che sconvolge. Che scuote e non lascia indifferenti. Potere della letteratura, potere delle parole, che descrivendo e ponendoti di fronte situazioni, luoghi e personaggi, con i loro vizi e le loro virtù, che pur non esistendo, pur essendo palesi parti dell’immaginazione, sono rappresentazioni, esempi in piccolo di quella realtà che descrivono, pur se filtrata dagli occhi di chi racconta, pure se, la realtà, è quella intima e distorta di chi scrive. E ti apre gli occhi, ti purifica, ti fa vedere le cose sotto una luce insolita fino a quel momento tenuta nascosta e sorpassata da ben altri pensieri: lavoro, impegni, pressione sociale, scadenze, orari da rispettare. La vita è fatta pure di questo, non si può rifiutarlo. Ma c’è anche dell’altro, che seppur sopito e dimenticato, a volte, in rari momenti, appare e trasfigura tutto. Epifania, la chiamano alcuni. Squarcio tra le pieghe della normalità e irruzione improvvisa del divino. E no, non bisogna essere credenti, sguazzare nella religione fai-da-te, per coglierlo e magari crederci, pur non vedendolo.
Di simili apparizioni, di tali epifanie, la letteratura, la poesia, l’arte, offrono svariati esempi, ne sono una delle porte d’accesso. Non le uniche però. La vita, con la sua imprevedibilità, abbonda di momenti di luce, di pepite lucenti che nessuno si ferma a raccogliere. Perché? Perché distratti da altro, talmente presi dai nostri impegni e progetti e scadenze da rispettare, da non rivolgere un solo sguardo a quei cantucci oscuri, agli angoli nascosti, in cui si cela la luce che preme per uscire ed essere vista. Siamo accecati, e ci vogliono occhi bene aperti e ricettivi per vedere, tanto più quel che non si vede.
Ed ecco che si torna al discorso iniziale, a quella fatidica domanda, a quella tanto cercata felicità che tanto più ci sfugge quanto più la vogliamo afferrare. Ma come arrivarci, se le strade intraprese per giungervi son quelle sbagliate? Se la stessa vetta è confusa, nascosta da nubi plumbee che a guardarle dan le vertigini? E se non solo le domande, ma anche la risposta, questa desiderata e confusa felicità, fossero errate? Sembra banale, per quanto è facile, eppure non è poi così impossibile sfiorarla, questa signorina Felicità. A volte si può addirittura possederla e farci all’amore. Il problema è saperla riconoscere, tra le tante imperfette signorine che brulicano ovunque e confondono le idee. Non idealizzarla troppo e farne uno scopo arduo da raggiungere, un idolo da conquistare con soldi, successo, potere, accumulando sempre e sempre come il povero Mazzarò.
Chi cerca trova, insegna il proverbio. La vita ti dà in cambio quel che tu per primo le offri, dice la saggezza del karma. Se solo si provasse a mutare lo sguardo, a cambiar gli obiettivi, a preferire al profitto l’empatia, alla competizione e alla lotta la fiducia e la comprensione, al soldo guadagnato e messo via il sorriso sincero; esser felici, godere la vita e provare gioia, gioia autentica, non sarebbe più vista come una meta lontana, come una chimera irraggiungibile. Il conto in banca ne risentirebbe, ma l’anima ne trarrebbe immenso beneficio. Il portafoglio sarebbe più vuoto, ma di sicuro il cuore più pieno.
nulla di più vero. Grazie per questa splendida pagina.
Grazie a te per aver dedicato del tempo alle mie parole, e grazie alle tue, di parole, rincuoranti e sentite. Anche questo, comunicare i propri pensieri e sentimenti e trovare qualcuno dall’altra parte che capisce e ne viene toccato, può essere uno dei tanti modi di imbattersi in quell’invisibile e scorgere un po’ di luce laddove tutto sembra spegnerla, coltivare l’empatia e lo scambio con gli altri a dispetto della egoistica logica dominante. Ancora grazie di cuore Giorgia.
Ciao Liliana! Ho letto volentieri il tuo nuovo articolo. Al di là dell’indiscutibile critica al materialismo, io non so se sia possibile raggiungere una felicità piena, appagante, duratura e se questa non sia invece solo una meta ideale che poniamo nel futuro e a cui tendiamo.
Per questo mi piace pensare che la felicità non si declini soltanto in una forma futuribile e chimerica, a cui tuttavia non rinuncio, ma che ne esista un’altra, forse semplicistica ma almeno esperibile e concreta; una forma che si sbarazza del passato e del futuro per afferrare il presente e dirmi che una punta di felicità è anche qui, sotto il mio naso. Sullo sfondo dell’inerzia, di un placido pessimismo che ho imparato ad accettare, mi accorgo che a volte si staglia un bagliore che come un occhio si apre e si richiude rapido. Può accendersi in tutto, in un gesto, in un sorriso, in qualcosa di per sé futile, ma che si rivela denso e ti fa star bene. Bisogna solo persuadersi che come è arrivato così se ne andrà. E se davvero siamo orfani di Dio, orfani di una storia che ci ha gettati in carcere, penso che ci resti sempre questa apparizione tra due nulla; allora mi sforzo per stare all’erta, per sorprenderla, per coglierla con più intensità possibile, perché spesso non è facile accorgersene.
“Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere.”
Matteo ma quale onore! Mi piace quello che hai scritto, è proprio quello che intendo io quando parlo di epifanie, luci nascoste e apparizioni di divino: niente passato con i suoi rimpianti e rimorsi, niente futuro con le sue ansie e le sue mete malate da raggiungere; è proprio qua, adesso, la felicità tanto agognata che ci mettiamo davanti e giochiamo a rincorrere. E non importa se passerà, se sarà solo un attimo di benessere per poi ritornare alla solita corsa contro il tempo: a me basta sapere che esiste, riempirmi il cuore quando arriva, e, quando sarà andata, attendere pazientemente il suo ritorno. Tenere gli occhi sempre ben aperti non è per niente facile, ah quante volte ci si perde e si finisce in balia dei mostri là fuori che si vogliono a tutti i costi evitare! Ma ne vale di sicuro la pena, fa parte del gioco, e lo accetto; pur partendo, come te, dal pessimismo, dalla disillusione e dalla triste consapevolezza della vanità di tutte le cose, è l’ottimismo della volontà che ho sempre preferito al pessimismo della ragione ;)
E visto che citi “Le città invisibili”, ti lascio a mia volta con una citazione che non mi stancherò mai di ripetere e diffondere a destra e a manca, tanto mi ha colpito ed è per me importante, sorta di vademecum, di faro da seguire, promemoria per ricordarmi sempre quel che più conta e bisogna cercare, in questa vita:
“L’inferno dei viventi non qualcosa che sara’; se ce n’e’ uno e’ quello che e’ gia’ qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo piu’.
Il secondo e’ rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non e’ inferno e farlo
durare e dargli spazio.”
Al prossimo commento ( che ci sarà, vero?) E complimenti, scrivi veramente bene!
“L’inferno dei viventi…” è una delle mie citazioni preferite. Come anche “Se i tempi non richiedono la tua parte migliore, inventa altri tempi” che se non sbaglio è di Benni.
In generale apprezzo gli sforzi di chi, con fatica sovraumana, sulle macerie del proprio ottimismo, dentro le pareti del proprio cinismo, riesce a trovare un barlume, non speranza, che insinuerebbe un’attesa apatica di un futuro incerto, ma meraviglia. Occhi aperti e stupore di fronte a un gesto, un angolo, una persona, una parola, che inferno non è, appunto.
Perchè è impossibile aspettare un futuro bello, o ancora di più costruirlo, se nel presente perdiamo la capacità di scorgere la bellezza. Se vediamo solo nero, e di nero ce n’è, ma c’è anche altro, e questo altro, così difficile da scorgere, deve essere preservato.
:)
Manuela cara, non posso che condividere quanto da te scritto, ogni singola parola. :)
Scorgere questa luce, queste piccole pozze d’acqua in mezzo al deserto, e preservarle e farle crescere, non solo è difficile già di per sè per la loro esiguità e scarsezza in mezzo al nero più nero del deserto che sommerge e inaridisce tutto; l’insidia più pericolosa sta nel permettere a questo nero di entrarci dentro e prendere possesso delle nostre vite, delle nostre menti e delle nostre azioni, perché, come dici giustamente tu, non si può veder fuori la bellezza, se prima non la troviamo in noi, se non siamo noi per primi scossi e presi nel profondo da quelle “visioni” che vorremmo tanto buttar fuori per costruirci qualcosa di nobile, di bello, degno di essere ricordato, che ci coinvolga tutti in quel che di meglio abbiamo.
Utopia, questa, che si fa ancora più irreale se il cinismo prende il sopravvento e diventa abitudine, atteggiamento consolidato, nutrito di disillusione e amarezza, talmente radicato in noi da non riuscire più a staccarsene per andare a fondo, in cerca proprio di quella bellezza che, morta o almeno temporaneamente spenta nell’anima nostra, non riusciamo più a vedere, sentire, toccare là fuori.
Questo è il vero pericolo, per me, questa la lotta, interna e solo dopo esterna, che più val la pena di combattere e vincere; questo lo scopo principale verso cui convergono la mia concentrazione, attenzione e forza di volontà. E con quel che ne resta (se ne resta), si pensi pure ai piccoli mini-obiettivi a breve termine, a impegni, scadenze e soddisfazioni materiali. Altro è ciò che conta, ed è qui sotto il nostro naso, più vicino di quanto si immagini. :)