E’ un sabato sera come altri, o forse un po’ più divertente di altri, quel tanto che basta a farti vagare nei vicoli accaldati di Palermo col sorriso di chi è in vacanza. E questo facciamo, per circa due ore, con un sorriso stampato sulla faccia, ci muoviamo da un concerto surreale sulla terrazza di un albergo, ai vicoli dei Candelai, fino alla Vucciria, finalmente. In mezzo a tali peregrinazioni c’è un posto che per noi è come una casa, un locale piccolo con un soppalco, abbarbicato su delle scale di pietra dalle quali prende il nome. Come sempre, anche questo sabato sera ci ritroviamo lì a sorseggiare un mojito di un certo spessore. Come sempre, il gestore del locale, un amico che vive a Palermo ormai da anni, ma che è nato in Bangladesh, si siede con noi, come si fa con gli amici, per l’appunto. Parliamo di sua moglie e di lui, del desiderio che hanno di avere dei bambini, delle difficoltà che stanno incontrando, di quanti soldi hanno speso per le cure, dell’attesa mensile di un verdetto. Ne parliamo comunque con un sorriso, a voce un po’ bassa, con molta speranza.
Lui ci presenta un altro ragazzo, un po’ più giovane, che parla poco italiano, e ci mostra un foglio dell’Ufficio Immigrazione della Questura, e ci chiede di spiegargli cosa c’è scritto. Combinando le informazioni del testo, con quelle di un racconto sgangherato ma comunque dotato di senso, apprendo che il suo datore di lavoro ha deciso di sfruttare la sanatoria per gli stranieri in nero, per mettere in regola il suo lavoro di collaboratore domestico e fargli finalmente ottenere il permesso di soggiorno. Per un caso un po’ sfortunato, e per l’illogicità di alcuni comportamenti umani, però, ad un controllo della Questura, la moglie del datore di lavoro, spaventata da chissà cosa, ha dichiarato di non conoscere il ragazzo in questione, di averlo visto un paio di volte, forse, ma sicuramente di non aver intrattenuto con lui un rapporto di lavoro continuativo. Morale della favola: il datore di lavoro rischia sei anni di carcere, la richiesta di permesso di soggiorno risulta rifiutata. Il nostro giovane amico ha versato di tasca sua i contributi, e probabilmente sarà costretto a tornare a casa.
Mi spiega queste cose con un’espressione avvilita, mi fa vedere le ricevute dei versamenti, un sacco di soldi persi per sempre. Mi chiede cosa deve fare, ed io non so rispondere. Gli chiedo se è andato all’Ufficio Immigrazione per capire perché la domanda è stata rifiutata, ma mi dice che non vuole andare perché ha paura. Penso che avere paura di un’istituzione vuol dire non avere diritti, nè giustizia. Penso che non sapere a chi chiedere aiuto significa non avere una bussola, né una mappa, in un territorio sconosciuto. Mi sento triste e decido di aiutarlo.
Faccio una piccola ricerca e scopro che esistono dei centri di assistenza per molti aspetti della vita degli immigrati. Alcuni dipendono dalla Provincia, o dalla Regione, alcuni sono dei centri religiosi, molti gestiti da volontari. Offrono assistenza legale, sanitaria, psicologica, corsi di lingua, orientamento al lavoro, aiuto nella ricerca dell’alloggio. Qui una lista dei principali. Credo che dovrebbe essere nostro dovere diffondere questo tipo di conoscenza e aiutare chi è in difficoltà, con l’atteggiamento di chi accoglie, da bravi padroni di casa.
La nostra serata continua, gli amici dal Bangladesh ci lasciano alle nostre chiacchiere, che sostanzialmente si riassumono in un discorso sul costo degli affitti fuori dalla Sicilia e ancora meglio fuori dall’Italia, perché qui non si può rimanere, qui va tutto male, c’è la crisi, non ci sono stimoli culturali, abbiamo bisogno di altro, abbiamo bisogno di un lavoro che non preveda l’uso di microfono e cuffiette davanti a un monitor. Io vorrei andare, ma vorrei anche restare, io so che fuori gli stipendi ti permettono di arrivare alla fine del mese, ma vuoi mettere il mare? amen, fai dei piccoli sacrifici, ma almeno ti fai una famiglia, perchè tu la vuoi una famiglia? io non so se vorrei dei bambini, forse li vorrei, ma vivere all’estero significa anche dover parlare in un’altra lingua, metti che hai bisogno di aiuto, come fai?
E in un lampo vedo tutto dall’altra parte dello specchio. E spero che ci sia per me un’amica straniera clemente, che mi aiuti a capire una lingua non mia, su panche di legno, davanti a un mojito, da un’altra parte, nel mondo. Ma soprattutto spero di riuscire a trovare la forza di non andare via, di restare, e affrontare i problemi, e magari iniziare un tempo nuovo, noi e loro, insieme.