Bambini autistici e terapie

di Francesca Vassallo*

So di andare controcorrente esprimendo un punto di vista diverso da quello degli attuali indirizzi terapeutici che si occupano di disturbi della comunicazione, disturbi sempre più diffusi nel mondo infantile e che, nell’autismo, raggiungono i più alti livelli di gravità . Lo considero, tuttavia, un atto dovuto a tanti bambini e a tante bambine con cui negli anni sono entrata in una relazione di cura, un atto dovuto nei confronti di tante madri che si affidano angosciate alle terapie di stampo americano, dominanti in questo ultimo decennio. Con una dovizia di dati scientifici, si cercano elementi inconfutabili a sostegno dell’ipotesi di un’origine genetica di tale “malattia”, e si propongono terapie che disarmano per il loro rigore metodologico e costringono all’esecuzione scrupolosa anche di “compiti per casa”, “necessari se si vuol aiutare i propri figli a star meglio”. Da parte della madre non è ammesso il dubbio o una visione personale del problema: basta dimenticarsi che il proprio figlio o la propria figlia hanno una storia di relazioni e di fragilità, basta “non sentire” insieme a loro, e procedere con gli automatismi prescritti. Per ottenere cosa?

L’orientamento implicito negli strumenti terapeutici adoperati è che, se non si può salvare la comunicazione “affettiva”, si salvi piuttosto quella “funzionale”. L’obiettivo, quando la famiglia accettasse di collaborare senza incertezze, eseguendo correttamente gli esercizi stimolo/risposta che la terapia impone, è di ottenere un ragazzo, una ragazza, capace di comportamenti utili per la sua sopravvivenza.

L’obiettivo è di rendere autosufficienti nella vita ordinaria individui che, altrimenti, graverebbero drammaticamente e senza vie d’uscita sulla vita della madre, che si fa carico di questa sofferenza nella più totale solitudine. Ma nei casi migliori questo orientamento prevede pure una ricompensa per tanta fatica: la nota “genialità”, che spesso si associa a questo grave disturbo infantile, ed è data dall’esaltazione di funzioni intellettive e creative che scattano nel bambino in forme abnormi e ”fredde” ,  per potere compensare l’assenza dolorosissima di una vita di emozioni e di relazioni, diventa oggetto di interesse da parte degli specialisti; doti eccezionali che i genitori possono esibire in pubblico, uscendo così dall’isolamento a cui sono condannati.

Allora mi chiedo, sollecitata da tante madri che hanno avuto la forza di sottrarsi ad un copione terapeutico disumano che le rende mute, che senso abbia salvare il corpo rinunciando inesorabilmente all’anima di tanti bambini e bambine nei quali, per cause misteriose, qualcosa si è “rotto”, dopo che nei primi giorni (o mesi) di vita hanno espresso un normale desiderio di comunicare?

Se ciò che dà valore e dignità ad ogni persona  è “l’essere in relazione” e non semplicemente l’esser funzione corporea, non si dovrebbe mai rinunciare a ritrovare il bambino perduto e a dare fiducia ad una madre che vorrebbe incontrare ancora lo sguardo di quel figlio che ha conosciuto e poi perso.

E se dietro quella rottura c’è una natura così fragile che non ha potuto tollerare alcuna disarmonia , e da quest’ultima, entrata nella sua vita troppo rumorosamente, si è dovuta difendere con misure estreme, non sarà forse più che mai necessario creare intorno alla chiusura di questi bambini un ambiente terapeutico che entri in sintonia con le loro parti fragili, affinché non vengano più feriti da tutto ciò che è troppo diverso ed estraneo alla loro sensibilità congelata? Perché non credere (o sperare) che poco alla volta questa sottile ma ben corazzata esistenza possa uscire dal suo guscio e sorridere perchè “vuole”sorridere, piangere perchè “sente” il dolore, e finalmente abbracciare con il cuore chi ha sofferto insieme a lei una pena…incomunicabile?

Mi chiedo ancora se in un mondo programmato e omologato, che non ammette differenze e fragilità, sia proprio la sofferenza a non trovare più ascolto, perché non si hanno risposte per essa. Così, piuttosto che continuare a “parlare” con chi si è dovuto dolorosamente chiudere in sé stesso, si preferisce adottare procedure terapeutiche che richiedono semplicemente “competenza” e distacco emotivo.

*Francesca Vassallo, pedagogista, responsabile del Centro per l’infanzia Il tempo del gioco

5 thoughts on “Bambini autistici e terapie

  1. Lavoro da tanti anni con i bambini autistici e con le loro famiglie. Ho acquisito nel corso del tempo una competenza sufficientemente buona nelle procedure terapeutiche ma mai distacco emotivo anche se qualcuno voleva impormelo….I migliori risultati li ho ottenuti quando ho appeso al chiodo pregiudizi e preconcetti e sono entrata nella stanza di terapia con tutta me stessa e la mia capacità di sentire l’altro. Ho detto di no ad un tipo di riabilitazione schizofrenica che scinde e confonde gli strumenti con il fine. IL fine è quello di restituire il bambino alla vita e non il raggiungimento di alcune performance cognitive per autocelebrarci e rassicurarci. Com’è possibile fare breccia nella corazza dell’altro se dal primo incontro ti presenti con il carro armato? Grazie Francesca per avermi ricordato quanto sia importante prima di ogni altra cosa il riconoscimento dell’altro. L’altro, prima o poi, ci riconoscerà. Questa la scommessa. Per vincerla bisogna attraversare la nebbia della incertezza e ….giocare.

  2. Come affermava Lacan, l'”Io è l’Altro”: l’Io si forma tramite l’identificazione con un’istanza esterna, con un “Altro”, per cui è basato sull’immagine dell’Altro, che come uno specchio lo riflette e gli consente gradualmente di prendere coscienza di sé.

    Allora, se l’Io è l’Altro, noi siamo l’Altro e l’Altro è noi; l’altro diviene parte inscindibile del nostro Io e noi del suo, in un’idea di unione costruttivamente cosmica che giustifica l’empatia terapeutica di cui soprattutto una personalità fragile come quella autistica necessita.
    D’altronde lo diceva anche Gesù: “non fare agli altri ciò che non piace a te”. Per converso, bisogna offrire empaticamente agli altri, ai più bisognosi, ciò che speriamo venga offerto a noi.
    E noi di certo nella vita non vogliamo solo imparare ad andare in bagno da soli o a cucinarci l’uomo al tegamino (mera funzionalità = sopravvivenza). Vogliamo vita vera, anime, scambi, sorrisi, amore (affettività/emotività = vita reale).

    Anche l’incapacità di comunicazione va ascoltata, non siamo macchine standardizzate e prive di motivazioni individualissime di fondo, spiegatelo ai comportamentisti ortodossi per favore.

  3. Grazie Lia, grazie Noemi, per avere condiviso lo spirito del mio articolo. Continuiamo a gredere che “sentire” l’altro, anche se spesso dolororo è l’unico modo per sentire se stessi/e; ma che il presupposo per “avvicinarlo” rispettandone l’alterità e la bellezza, è di lasciare che vi sia sempre uno “spazio” dove “danzino i venti del cielo”.

  4. Io sono totalmente fuori da questo genere di discorsi, e di certo non ho la competenza di due pedagogiste e una quasi-psicologa. Ma volevo comunque dire che questo articolo è bellissimo, comprensibile anche a chi, come me, non è del campo, e pieno di amore. Amore per il proprio lavoro, per quella parte di umanità che non rientra nelle tabelle Istat, per i sentieri difficili, per l’uomo e per il bambino, anche quando l’uomo o il bambino quell’amore sembrano non avvertirlo. In questo mondo in cui vale più un bilancio aziendale del valore di una persona, queste parole rappresentano un barlume di speranza. Quindi, grazie.

    :)

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