Ci pensavo in questi giorni: una delle tante domande pseudo-esistenziali e intellettualoidi che mi sfrecciano nella mente, per ingannare il tempo morto, tra un miniprogetto da realizzare e i fumi di un sogno andato, interrogativi intangibili dai quali non posso fare a meno, ancora, di farmi sfiorare, di tanto in tanto. Pensavo questo, e lo pensavo osservando i volti di gente stressata, impaurita, chiusa nelle proprie certezze, nei propri piccoli scampoli di sicurezza tenuti saldamente stretti, nel proprio egoismo tronfio e intaccabile, noi un piccolo mondo autosufficiente, e il mondo, quello vero, una cosa a parte, senza importanza e scopo, se non quello di servirci, servire alla nostra ambizione, ai nostri sogni di gloria, testimone della nostra avanzata trionfale o della rovinosa caduta; volti ed espressioni colti all’esterno che adesso scorgevo lì, davanti allo specchio che rifletteva le stesse paure, le medesime meschinità e desideri da quattro soldi dai quali per tanto tempo, con superba ingenuità, mi sono sentita immune e inattaccabile. E invece: gli occhi sbarrati e spenti era la stessa invidia, la stessa vendicativa voglia di rivalsa, la stessa sfiducia, che esprimevano; la bocca, distorta in un duro sorriso di scherno, lo stesso disprezzo e orgoglio che niente chiede, di nessuno ha bisogno; e quello che provi, di fronte ai tuoi mostri galleggianti su quel vetro, tu con i tuoi buoni propositi e i tuoi nobili ideali, tu che ti illudi di essere migliore e di combattere per le cause giuste, è vergogna, confusa vergogna, nel renderti conto che tu, sì proprio tu, con tutta la tua saggezza e i tuoi principi, non sei poi così differente da ciò che tanto critichi, e dal quale ti vorresti distanziare. E’ poi tanto diverso ferire, mancare di rispetto, star sempre in guardia e riservare fredda diffidenza perché veramente pensi solo a te stesso e vuoi solo raggiungere i tuoi obiettivi, e diventarlo, cinico e indifferente, per proteggerti dalle solite delusioni, perché “ad esser troppo buoni ci si rimette sempre?”.
E andiamo avanti così allora, a ferirci a vicenda e guardarci in cagnesco, a sparare per primi per prevenire colpi che magari non arriveranno mai, o a distruggere gli altri perché sul serio non ci importa niente dei loro universi privati che manco riusciamo a vedere, troppo presi dal nostro. Basta un niente, una delusione, una ferita ancora aperta che fatica a richiudersi, una debolezza, un segreto tradito, una fiducia mal riposta, e il mondo si trasforma in un campo di battaglia, in una guerra che nessuno ha intenzione di perdere e tra i fuochi della quale il peccato mortale, l’errore fatale, è abbassare la guardia, smettere la corazza anche solo per un attimo, mostrare il fianco anche solo a quell’ unico essere umano che, forse, non è poi così pericoloso come credevamo, spogliato dai nostri pregiudizi e da errate proiezioni, per rivelarsi per quello che in realtà è: un uomo impaurito e confuso che prova a tirare avanti nella battaglia senza soccombere. Proprio come te. Come noi.
E’ buffo: si fa tanto parlare di carpe diem, di godersi la vita, di vivere al cento per cento, al massimo delle nostre possibilità; e si cercano tutti i modi per carpire emozioni, per provare sensazioni che ci facciano sentire di avere il fuoco dentro, che ci facciano illudere di esserci, non soltanto di esistere. Ci si butta a capofitto in esperienze di ogni tipo, si cerca l’adrenalina, la scossa esaltante, nel sesso di una notte, nel brivido di una pazza corsa, nell’esuberante sconvolgimento di una serata alcolica, nei viaggi ossessivo-compulsivi e nello spendi-e-spandi nevrotico; si accumulano episodi su episodi scollegati tra di loro, pezzi di un mosaico che vanno a comporre un disegno, incoerente e caotico, che non ci corrisponde affatto. Si va avanti in virtù del proprio ego, schiavi di condizionamenti, esterni ed interni; inconsapevolmente ci costruiamo la nostra gabbia, innalziamo un muro con i mattoni dei nostri errori passati, incapaci di cambiar rotta, di rischiare, di buttare all’aria comportamenti indotti, falsi ed inautentici, e di lasciar filtrare uno spiraglio; e intanto ci si illude di essere padroni delle nostre esistenze, soddisfatti ognuno nel gelo della propria tana dalla quale si osserva un mondo che non si capisce e proprio per questo fa paura, un mondo che si storpia e si distorce e si adegua alle nostre insicurezze, ai nostri punti di vista stravolti e imparziali, al nostro occhio annebbiato dall’ira, o dalla delusione, o da lacrime amare. E non ci si accorge che quella non è la realtà, ché il mondo se ne frega di una delusione d’amore, di una promozione mancata o di un’ingiustizia subita, e che se solo ci si sforzasse di non tenersi per sè il proprio dolore come un dono esclusivo, per quanto tremendo, ci si renderebbe conto di non essere gli unici, ad esserne tormentati e a soffrire di pene perdute, e soprattutto non ci si trincererebbe dietro buone ragioni destinate a marcire e convinzioni deformanti che avvelenano tutto.
Vedo gente correre impettita, che si passa accanto senza sfiorarsi, gettandosi sguardi sospettosi, muovendosi con cautela e guardandosi attorno con circospezione, o non gettandoseli affatto, degli sguardi; gente talmente presa da sè da non accorgersi del disagio del vicino, della bellezza di uno sguardo tenuto nascosto; gente che sgomita e vede nell’altro unicamente un ostacolo da eliminare, o un incentivo, un sostegno ad un’identità traballante, in ogni caso qualcosa da usare a proprio vantaggio, o da togliere di mezzo in quanto inutile, o ignorare, nel migliore dei casi. Mi guardo intorno e ovunque scorgo manichini che giocano ad essere uomini, che fan finta di avere una vita svolazzando di qua e di là a raccogliere gratificazioni e riconoscimenti, impegnati quasi esclusivamente a sfoggiare la propria pochezza e i segni esteriori di una personalità che in realtà non esiste, preoccupati più della facciata che mostrano che di lasciarsi andare e rendere visibile un’interiorità non presa nemmeno in considerazione. Mi guardo dentro e vedo dentro me la stessa vanità, lo stesso egocentrismo, la stessa volontà calcolatrice, che mi spingono giù dalla vetta dei miei buoni principi e mi fanno adeguare a quello che vedo e mi circonda. E ci vuole uno sforzo enorme, sovrumano, per impedire che il cuore resti di carne e non si faccia gomma.
Vi è mai capitato di spogliarvi, per un solo meraviglioso attimo, del vostro io così come lo conoscevate, con tutto il suo fardello di recriminazioni, rimorsi e rimpianti, invidie e odi non sopiti, e guardare la realtà con gli occhi di un bambino, senza passato, senza futuro, senza aspettative da soddisfare, senza fragilità da tenere nascoste, senza imbarazzanti colpe da celare, senza istruzioni per l’uso sballate e preconcetti? Vi è mai successo di guardare negli occhi uno sconosciuto, parlarci per pochi secondi, e intravedere in quel breve lasso di tempo lo speciale splendore della sua vita segreta? Vi è mai capitato di mettere da parte le vostre certezze e dimenticare quel che vi è stato insegnato, semplicemente lasciandovi attraversare dalla vita e muovendovi al ritmo del vostro cuore, secondo le vostre intime convinzioni, senza preoccuparvi di essere giudicati o capiti, limitandovi per paura…di che poi? Vi è mai successo di aprirvi, aprirvi sul serio, ad un altro, e vederlo, vederlo veramente, percepirne l’anima e sgretolare le barriere? Di vivere in un eterno presente di gioia e pace, senza niente da dimostrare a nessuno? E vi è mai successo di fermarvi, far piazza pulita di opinioni e desideri non vostri, e senza pensare a niente, godervi la brezza leggera di un vento primaverile, perfettamente a vostro agio nella vostra pelle? Se sì, siete fortunati: potrete ben dire di aver vissuto veramente, anche se per un solo secondo, o minuto, o ora di abbandono sublime. Se no, niente paura: c’è tutta una vita per imparare, e provare.