Un ragazzo-molotov che lancia un mazzo di fiori, una giostrina per bambini con un delfino rimasto impigliato in alcune reti da pesca, un prigioniero di Guantanamo a Disneyland, salami e provole che si contraggono come esseri viventi: tutto questo è Banksy. Banksy è un artista britannico, di cui si sa pochissimo: forse è nato a Bristol, si suppone nel 1974, probabilmente è un uomo. Ciò che lo ha reso noto sono le opere di street art, con le quali ha iniziato alla fine degli anni Ottanta, proprio a Bristol, nell’ambito di una crew di graffitari, e grazie alle quali è diventato sempre più famoso negli ultimi anni.
La tecnica a lungo prediletta è quella dello stencil, il supporto solitamente usato è l’esterno di un edificio, cosa che rende al limite della legalità le sue azioni artistiche. Le immagini che ne vengono fuori sono accomunate da ironia, irriverenza e messaggi pacifisti, anti-capitalisti, destinati a provocare una reazione nello spettatore.
Quello di Banksy non è un gesto vandalico, né semplicemente un atto comunicativo, è soprattutto un tentativo di riappropriazione degli “spazi bianchi” rimasti liberi dall’aggressione della pubblicità e delle marche nelle nostre città: tra cartelloni pubblicitari e insegne, l’estetica urbana è affidata ai professionisti della merce, il gesto del graffitaro è, in questo caso, un atto di riappropriazione di un contesto del quale siamo stati privati, e nel quale siamo comunque costretti a passare molto del nostro tempo.
Col trascorrere del tempo le opere di Banksy hanno assunto connotati evidentemente politici, anche se lui in una recente intervista (avvenuta rigorosamente via email), afferma che l’arte richiede un tale egocentrismo che viene il dubbio se possa esistere o meno una vera arte politica.
In tutti i casi le sue opere contengono spesso dei messaggi di un certo tipo, a partire dal ragazzo che lancia un mazzo di fiori come fosse una molotov, richiamando il simbolismo tipicamente pacifista del fiore come simbolo di non violenza, fino ad arrivare alla ben più radicale immagine nella quale la bambina vietnamita che sfugge ai bombardamenti americani col napalm, viene ritratta accompagnata da un sorridentissimo Mickey Mouse, e dal clown della McDonald, due icone che rappresentano il sorriso americano, in contrapposizione all’altra faccia del sogno americano, la guerra.
Probabilmente con un simile intento di provocazione, nel 2006 Banksy ha piazzato un pupazzo gonfiabile raffigurante un prigioniero di Guantanamo, in un punto molto trafficato di Disneyland. L’opera è rimasta indisturbata per alcune ore, fino a quando alcuni agenti della sicurezza del parco divertimenti non si sono accorti dell’ospite e lo hanno immediatamente rimosso.
La riflessione non è semplicemente anti-americana, come potrebbe sembrare. C’è da chiedersi quanto la scelta di usare gli spazi pubblici per esporre la propria opera sia ingenua. E in effetti fa questo, Banksy, crea una riflessione sulla “superficie” pubblica, dentro lo spazio pubblico, usando pareti come tele, e parchi divertimento come musei. Affinché la fruizione sia gratuita, e foriera di domande.
Altre sue incursioni, di diverso tipo, sono quelle all’interno dei musei, uno tra tutti il “Tate Modern” di Londra, dove l’artista è entrato e ha posizionato le proprie opere indisturbato, come a voler reclamare il proprio diritto di artista di stare dentro ad un museo, o forse, più probabilmente, per svelare il meccanismo inconscio del fruitore dell’opera d’arte, che considera arte tutto ciò che c’è dentro al museo, anche quello che non dovrebbe esserci.
Ad un’istanza etica ed ecologica, invece, è attribuibile la costruzione di una giostrina per bambini a forma di delfino, che riprende la forma tipica dei giocattoli meccanici a monetina presenti nei parchi, e lo ripensa con un significato di denuncia: il delfino ha lo sguardo torvo, è imprigionato in reti da pesca, e cavalca un’onda di petrolio, corredata da barile marcato BP.
Probabilmente il gesto più significativo, però, rimane la realizzazione di alcuni murales sul muro della vergogna, realizzato dal governo israeliano per delimitare i territori palestinesi occupati. Su questo supporto Banksy ha realizzato, tramite la tecnica del trompe l’oeil, degli squarci metaforici, che permettono di vedere cosa c’è dall’altra parte, solitamente paesaggi tranquilli e bambini che giocano. Un altro tipo di stencil, realizzato sempre sul muro, ritrae una bambina che tenta di scavalcare il muro servendosi di alcuni palloncini, o ancora un bambino su una scala.
Quello che mi sembra grandioso è il fatto che ancora nessuno abbia comprato il “marchio” Banksy, e che anzi lui (o lei, o loro) sia restio ad entrare nei circoli tradizionali dell’arte mercificata, soprattutto se invitato: non è un caso che il film-documentario che porta la sua firma si intitoli Exit through the gift shop, a indicare quell’usanza non priva di fine di posizionare l’uscita dei musei attraverso il negozio degli articoli da regalo.
Rimangono i dubbi dei puristi dell’arte, e degli amanti dell’ordine urbano: le opere di Banksy vengono, per questo, spesso “perse” sotto uno strato di vernice nuova, oppure semplicemente rimosse.
E dunque rimaniamo in attesa del prossimo segno, del prossimo colpo di genio che ci faccia riflettere sulla società alla quale apparteniamo e sulla città nella quale viviamo come se non fosse casa nostra.
Chissà nella vita chi sia Bansky, forse è un riccone che si diverte a fare il paladino della street art o un povero foto reporter… (batman o spiderman?)