Rivolte in Tunisia per scacciare l’anaconda che ha paura di YouTube

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Sono passati quasi 6 anni da quando ho visto per la prima volta questo cartello: un uomo abbastanza giovane con una mano sul cuore, e sullo sfondo la bandiera della Tunisia, in pendant con la sua cravatta, simpatico ad un primo sguardo. Si chiama Zine El-Abidine Ben Ali e dal 1987 governa la Tunisia.

Non è difficile capire perché mi fu presentato da un mio amico tunisino come “l’anaconda”: un militare che vanti agganci con i servizi segreti del mondo occidentale è come un’anaconda che, una volta catturata la sua preda, la stringe fino al soffocamento. Mohamed conosce l’italiano meglio di me e sa usare le parole giuste per descrivere le cose:  sa che si usa il verbo “soffocare” quando si descrivono le azioni di un governo nei confronti della masse in agitazione.
Mohamed aveva anche letto Gramsci in italiano e diceva che prima o poi in Tunisia ci sarebbe stata una grande rivoluzione e che aspettava quel momento, era nella volontà di Allah che lui pregava 5 volte al giorno.

Da alcuni giorni, in Tunisia sembra che quella rivoluzione stia per scoppiare, che la gente non ce la faccia più a reggere il suo faccione appeso per tutte le città della nazione, in tutti gli uffici pubblici, come il Grande Fratello di Orwell.
I moti sono cominciati a Sidi Bou Zid, quando la polizia ha effettuato un controllo su un ambulante ventiseienne, Mohamed Bouazizi, che al sequestro della merce ha deciso di darsi fuoco pubblicamente.

Quando la tensione è alta, basta una scintilla per appiccare un incendio ed è così che, dopo l’atto di disperazione di Bouazizi, tutti gli altri disperati di ogni ceto sociale si sono mossi per dire basta e non si sono fermati. Gli hacker lavorano costantemente per scavalcare le censure che il regime di Ben Alì impone (per esempio dalla Tunisia non si accede a youtube dopo i moti del 2008), al fine di riempire il web di video, foto e notizie.

Purtroppo, come si legge nei report di Wikileaks, lo stato tunisino è uno stato di quasi-mafia, con accordi politici fortissimi (come scritto prima, Ben Alì ha contatti con i servizi di sicurezza di mezzo mondo) e gli sforzi degli hacker non sono molto efficaci, perché la censura non è solo tecnica ma politica. L’Italia e la Francia non possono dare molto spazio a questi movimenti perché i tunisini che vivono in questi paesi potrebbero prendere coscienza di quello che sta succedendo nella loro terra madre e bloccare le città in cui si ospitano o mandare aiuti economici. Ci sono anche grossi accordi economici dietro, meglio non causare agitazioni, meglio fare silenzio.

I motivi che si leggono tra i file di Wikileaks e che sono confermati dai siti di controinformazione sarebbero, oltre al caro prezzi (pensate che la mia vicina di casa tunisina compra qui tutto prima di andare in vacanza nel suo paese perché qui costano meno) e alla disoccupazione, anche la corruzione, il nepotismo e gli eccessi della famiglia del democratico dittatore.

La resistenza tunisina oggi avviene per le strade e sul web, ma non soltanto con i classici commenti su Twitter o Facebook, ma mandando nel pallone i server che ospitano il sito ufficiale del governo tunisino.

La Tunisia potrebbe essere solo il sasso nello stagno dei Paesi mediorientali, nei quali la situazione è altamente critica, e la caduta dell’amico di Craxi potrebbe generare il caos nel resto del mondo arabo. Non crediamo ai nostri giornalisti che ci raccontano solo il velo di Maya, usiamo la malizia e guardiamo al di là: gli attacchi ai simboli religiosi del Cristianesimo sono attacchi all’Occidente sfruttatore, che impone governi corrotti, gestisce le risorse, impianta multinazionali e blocca il commercio con embarghi.

Per tenervi informati vi consiglio di seguire:

– su Facebook Diamo voce alla Tunisia (dato che i media non ne parlano)
– su Twitter #sidibouzid
– blog come 30secondi

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