Le persone sono complesse, ma le loro complicazioni non sono casuali (N. McWilliams)
K-Pax – Da un altro mondo, 2001, regia di Iain Softely:
Prot afferma di essere giunto sulla terra dallo spazio, dal pianeta K-Pax; ovviamente viene ricoverato in una clinica psichiatrica, dove passa il tempo dispensando arguzie, consigli e fredde lezioni sulla piccolezza dell’essere umano.
L’organo pulsante del film è proprio l’amletica natura di questo individuo: Prot potrebbe essere un “individuo mentalmente disturbato”, un dissociato preda di una possente struttura difensiva, di deliri e di idee fisse, ma anche un alieno che è stato ospitato nel corpo di un essere umano sofferente.
Si tratta di una pellicola volutamente ambigua, difficile da collocare; infatti, grazie alla capacità di tradurre in immagini la sua ambiguità di fondo, essa può essere diversamente definita drammatica, fantascientifica o psicologica.
I sognatori potrebbero considerarla fantasiosa o filo-fantascientifica, basata sulla reale alienità del protagonista, forse per tutti quegli inserti di astrofisica futuristica, per le menate sugli ultravioletti e sulla velocità della luce e per i continui riferimenti a vite lontane, altre, libere da vincoli ed evolute.
Per me, invece, è un film umanistico che chiede all’osservatore più attento di cullare la fragilità dell’essere umano e che gli schiaffa in faccia qualcuna di quelle tragiche scorciatoie che tutti usiamo per non impazzire di fronte a questa fragilità.
Un dramma psicologico senza effetti speciali, ma con al centro il potere degli affetti su un qualunque uomo, incarnato da un Kevin Spacey che mangia la banana con la buccia, mentre parla di accoppiamenti dolorosi con una paresi facciale da assenza di emozioni.
Un dramma a sfondo simbolico, perché qui i simbolismi bucano lo schermo più di qualsiasi effetto speciale, ricordandomi una discussione con lo psichiatra del Centro di Salute Mentale di via Fattori che seguiva pazienti schizofrenici: come si fa a rimanere tutti interi quando qualcosa ti spezza? Non si può; non si può che seguire il flusso di questa frammentazione traumatica, rinunciare all’integrazione, difendersi dal dolore disconnettendo – come fossero fili elettrici pericolanti – quei contenuti mentali penosi dal restante sistema psichico.
La dissociazione sta dentro il film, protagonista, ma non è fantascienza, esiste, e a volte è proprio questo tipo di rinuncia ad una certa umanità a far sopravvivere.
E’ quello che la finzione cinematografica ci mostra su Prot.
Ed anche in lui, come nella mente del vero schizofrenico, tutto è disfatto dai vincoli del dolore che lo hanno generato, deturpato, e riannodato secondo un simbolismo tutto suo, meno doloroso, ma sempre collegato al fil rouge della sua origine drammatica.
Il regista sembra sapere molto bene che solo ascoltandolo dal cilindro di un malato mentale esce la logica sottesa alla sua diversità. Così, costruisce il film su questa continua dialettica del rimando simbolico e dell’ascolto attento del particolare.
Perfino nel titolo troviamo questo gioco: K-Pax si legge “key-pax”: la chiave della pace. …La chiave di un mo(n)do nel quale trovare la pace, di un pianeta che ha risolto gli eterni problemi che affliggono l’umanità. Su K-Pax infatti non ci sono dottori, perché le persone trovano dentro di sé la capacità e la volontà di guarire; non ci sono delitti perché ognuno possiede il concetto innato di bene e male; l’atto sessuale è doloroso affinché non ci siano nascite di figli indesiderati; non c’è l’istituto della famiglia perché i figli siano di tutti e tutti abbiano il dovere ed il piacere di allevarli; non ci sono orfani né vedovi e nulla fa soffrire o dà gioia, perché anche la sua mancanza è sofferenza.
Al contrario, la terra, secondo l’uomo-alieno, ha un futuro incerto perché l’uomo sa perfettamente essere un gran seminatore e raccoglitore di dolore, e chi sta a subire questi agricoltori del male non può che inventarsi una soluzione, emigrare mentalmente e realmente, cercare asili psichici e fisici per superare il trauma di vivere in una simile fogna come questa “culla dell’umanità”.
Perché – come suggeriscono i nomi delle stelle attorno a cui il regista fa orbitare il pianeta K-PAX (ennesimo simbolismo!) – gli esseri umani vivono intrappolati dentro questo “eterno ritorno” dell’uguale, dentro un movimento apparente tra passato, presente e futuro, in cui le “scorie indigeste” della propria storia personale, dal proprio substrato psichico, rallentano, immobilizzano e alla fine impediscono ogni progresso o cambiamento.
Ma tutti (lo dice chi si crede un alieno poiché rifiuta questa immobilità/umanità moribonda) hanno dentro di sé la cura per i propri mali: tutti a un certo punto possono prendere in mano le proprie “scorie interiori” e decidere di usarle in modo diverso: decidere di andare, di restare, di provare a salvarsi o a chiedere aiuto, di imboccare una strada piuttosto che un’altra, decidere di smettere di restare intrappolati in una vita immeritevole o di rendersi meritevoli di essa, di aiutare qualcun altro, di lasciare degli insegnamenti, dell’arte, della vita degna.
K-pax offre a qualsiasi tipo di pubblico una ricostruzione della vita dell’uomo sulla Terra e di quell’animo umano e alieno che ognuno di noi conserva nella sua mente.
E’ un film di quelli che – in un’epoca apatico-individualista indifferente all’Altro – sa mostrare anche ad uno spettatore qualunquista come il dolore possa alienare un uomo, ferirlo così in fondo da portarlo ad annullare la sua appartenenza alla specie sapiens per cercare una “umanità” ideale fuori dal pianeta Terra.
Un dolore che trova la forza di sopravvivere al male perché ha una temporanea alternativa: l’alienazione. Alternativa che, però, quando non trova la sua vera salvezza scoppia, e ti lascia… corpo vuoto, vegetale, ennesimo paziente da aggiungere agli altri già catatonici, già abbandonati anche da se stessi.
Quello che bisognerebbe cogliere è che non è solo fantasia; sono riflessi di cose che accadono.
Capito questo, ci si accorge allora che questa storia d’invenzione forse è un po’ più di un film; è un messaggio umanitario ed è al contempo un esempio di come dovrebbe essere la fanta-scienza moderna: “una fantascienza in cui l’essere umano è il vero alieno che la società moderna si rifiuta di (ri)conoscere” (G. Iannozzi).
Mark: Allora, che mi dice dell’ordinamento sociale, del governo?
Prot: No, non ce n’è nessun bisogno.
Mark: Quindi non avete leggi?
Prot: Niente leggi. Niente avvocati.
Mark: Come distinguete il bene dal male?
Prot: Ogni creatura dell’universo distingue il bene dal male.
Mark: Ma se per caso… Ammettiamo che qualcuno facesse qualcosa di sbagliato, commettesse un omicidio o uno stupro, come verrebbe punito?
Prot: Le voglio dire una cosa, Mark. Voi umani, la maggior parte di voi, approva questa politica dell’occhio per occhio, vita per la vita, che è conosciuta in tutto l’universo per la sua stupidità. Anche i vostri Buddha e Cristo avevano una visione diversa, ma nessuno ha prestato loro molta attenzione, neppure i buddhisti e i cristiani. Voi umani… Talvolta è difficile capire come abbiate potuto sopravvivere.
Bellissima recensione, non solo per il modo in cui è scritta, ma soprattutto per come hai reso il concetto di alienazione dal dolore.
Brava Emina, una bella interpretazione alternartiva. Penso proprio che vedrò questo film, alla luce di ciò che hai scritto… :)
@valentina: grazie a voi di avermelo fatto vedere!
@sonia: poi voglio sapere!
La recensione prende, e rappresenta una chiave di lettura che penso sia proprio il messaggio che, contornato da astute mosse sceniche, il regista volesse far arrivare allo spettatore.
Nessun altro dialogo sarebbe stato più azzeccato di quello che hai scelto… in effetti non capisco proprio come abbiamo fatto a sopravvivere noi umani con il sistema che abbiamo innescato, di prevaricazione su tutto e sulla natura stessa, di accecamento da egoismo; le teste (di …) che vantano poteri decisionali adesso, sembrano non aver inteso che l’umanità non è tutto (o forse semplicemente se ne fottono delle generazioni future) ma è parte di un sistema più ampio da cui attingiamo risorse e che dobbiamo rispettare, rispettando così anche noi stessi, altrimenti segneremo la nostra stessa fine prima che sia tempo.
Beh, sull’interpretazione del film non posso esprimermi, dato che ce ne sono “soltanto” due, e la scelta è personale, in quanto non ci sono elementi che ne privilegiano una (ma, se ci si pensa bene, si contrastano entrambe, smentendosi, come se il film stesso combatta le due nature contrapposte del significato che vi sta dietro). Comunque sia, devo farti i più sentiti complimenti per l’analisi. Infatti, se paragoniamo k-pax (e la tua interpretazione del significato) ad un albero, tu sei riuscita a non fermarti sul solo tronco, sui rami e sulle foglie, ma hai scavato fino in fondo, hai trovato ogni diramazione delle radici e le hai tirate fuori, mostrando come esse si attorciglino su significati che ci toccano da vicino, che sono radicati (appunto!) nella nostra società (e io, in tutta sincerità, io non ho avuto la tua stessa profondità critica). Perciò complimenti!
grazie (:
E sono contenta che abbiate commentato qui, non tanto per gli apprezzamenti (che fanno cmq piacerissimo!) ma perché per noi è importante fare conoscere il sito per creare qui un dialogo virtuale e reale (che per fortuna abbiamo già avuto) con più persone possibile!