Testo di Alexia Mangano
Nella tarda sera di una Verona spettralmente avvolta dalla nebbia ci avventuriamo, lungo vicoli e vicoletti, alla ricerca del “famoso Balcone”; sì… il famoso balcone, quello di Giulietta. Eh già, perché, qualora non lo sappiate, in quel di Verona c’è un edificio, risalente al tredicesimo secolo, (una restrutturazione totale avvenuta nel ventesimo secolo gli ha conferito, però, l’aspetto attuale) appartenuto ad una certa famiglia Cappello, nella quale si è voluta riconoscere quella dei Capuleti, la qual cosa ha fatto si che si identificasse quella come la casa della shakespeariana Giulietta (anche se questa è un puro personaggio di fantasia).
Dopo esserci persi per stradine silenzose, finalmente troviamo la via che un gentile passante, a cavallo della sua bici, sebbene ci fossero 4 gradi sotto zero, ci aveva indicato.
Ma guarda e riguarda, stavamo quasi per passare avanti senza avere visto niente di romanticamente simile a quello che immaginavamo, quando, colti da un barlume di spirito osservativo, leggiamo la targhetta affissa al muro e indicante la nostra casa di Giulietta. Orrore!
Premesso che il balconcino non è immediatamente visibile, perchè si trova all’interno di un cortile che di sera rimane chiuso al pubblico, la cosa sconcertante in sommo grado e quasi drammatica è che la facciata dell’edificio è letteralmente invasa e ricoperata di scritte di ogni colore e carattere che ci informano di presunte unioni indissolubili ed eterne.
A bocca aperta ci guardiamo esterefatti. Andrea lentamente prende la sua macchina fotografica e senza fiatare inizia a scattare, in preda a raptus, una dopo l’altra, foto allo scempio sui muri.
Ora dico io, ragazzi miei e anche signori un pò attempatelli, ma chi ve lo fa fare di distruggere, rovinare, maltrattare quei poveri muri la cui colpa è solo quella di fornire un’attrazione turistica in più ad una città come Verona che già ha la sua bella Arena?
E pensate che per permettere a queste orde di innamorati incontinenti di scrivere le loro frasi romantiche sono stati posti dei pannelli removibili nell’androne di accesso al cortile sul quale si affaccia il famoso balcone; ma questi non sono bastati a contenere lo spasmodico desiderio comunicativo di giovani e meno giovani amanti, i quali hanno adottato come diario del loro amore sia i muri interni del cortile sia i muri esterni al cancello che al calar delle tenebre chiude la dimora; questi ultimi divengono così le uniche pagine ancora aperte quando, giusto la notte, un impellente bisogno di scrittura coglie i nostri colombi.
Come è abbastanza noto, grazie anche all’influsso “benefico” di fortunati best seller letterari e successivi film per adolescenti in calore, gli innamorati contemporanei, sono molto spesso alle prese con lucchetti e chiavi da gettare in acque profonde e per non perdere tempo non si lasciano scappare niente; e così, oltre a incidere il proprio amore su corteccie di alberi e tavoli dei pub, quando sono talmente fortunati da vivere o passare per Verona, ecco che corrono lì, a “casa di Giulietta”, eroina simbolo per eccellenza dell’amore più viscerale, perfetto e brutalmente contrastato fino alla morte, e per rendere immortale il loro amore insozzano un edificio che, sebbene rappresenti la dimora di un personaggio emblematico, è pur sempre una costruzione da rispettare, se non altro per il tempo che i suoi mattoni si portano sopra.
Malgrado tutto, probabilmente, queste persone non sanno che non è in questo modo che garantiscono l’infrangibilità al loro sentimento, ma lo banalizzano tristemente e ne svuotano i più nobili contenuti.
Ma lasciamo che sia il miele che stilla da ogni parola di un sospiroso languido Romeo (sebbene fuori tempo e fuori moda) che canta la beltà della sua Giulietta affacciatasi al balcone, a donarci per qualche istante, anche ai più scettici, un guizzo di quell’eternità amorosa che, solo vestita di vera arte, può cavalcare il tempo:
Oh, quale luce vedo sprigionarsi lassù, dal vano di quella finestra? È l’oriente, lassù, e Giulietta è il sole! Sorgi, bel sole, e l’invidiosa luna già pallida di rabbia ed ammalata uccidi, perché tu, che sei sua ancella, sei di gran lunga di lei più splendente. Non restare sua ancella, se invidiosa essa è di te; la verginal sua veste s’è fatta ormai d’un color verde scialbo e non l’indossano altre che le sciocche. Gettala via!… Oh, sì, è la mia donna, l’amore mio. Ah, s’ella lo sapesse! Ella mi parla, senza dir parola. Come mai?… È il suo occhio che mi discorre, ed io risponderò. Oh, ma che sto dicendo… Presuntuoso ch’io sono! Non è a me, ch’ella discorre. Due luminose stelle, tra le più fulgide del firmamento avendo da sbrigar qualcosa altrove, si son partite dalle loro sfere e han pregato i suoi occhi di brillarvi fino al loro ritorno… E se quegli occhi fossero invece al posto delle stelle, e quelle stelle infisse alla sua fronte? Allora sì, la luce del suo viso farebbe impallidire quelle stelle, come il sole la luce d’una lampada; e tanto brillerebbero i suoi occhi su pei campi del cielo, che gli uccelli si metterebbero tutti a cantare credendo fosse finita la notte. Guarda com’ella poggia la sua gota a quella mano…
Un guanto vorrei essere, su quella mano, e toccar quella guancia!
Romeo e Giulietta. Atto secondo, scena seconda.