di Azzurra Rizzo
Ai nostri padri,
innumerevoli e distanti
pieghe logore
nella memoria e nel tempo
echi lontani di racconti estasianti
di quegli eroi viaggiatori nell’ignoto
che del sofferente raccoglievano
la parola, il pianto, lo sfogo.
Ai nostri padri
scrittori della storia, poeti del mondo
padri martiri, padri vittime, padri oppressi
ma mai servi in questo girotondo
che tiene il loro capo chino a piangere
il timore antico, il terrore di lasciare a noi
un futuro corrotto
una terra di privilegiati avvoltoi
Ai nostri figli
che non vedremo mai
a cui non potremo spiegare
che per amarli non avevamo tempo
non avevamo posti, non soldi,
non avevamo vita abbastanza
coraggio abbastanza
da garantirgli tutti i loro giorni.
Ai nostri figli
quelli che invece potremo guardare
e li vedremo patire, morire
nell’insicurezza delle ore
trascorse con sacrificio a perdere sudore
per guadagnare la certezza misera
di un lavoro su cui marcire
Perché figlio mio, se mai nascerai
non perderò tempo a raccontarti fiabe
ti dirò invece la verità più arida e profonda
che questa non è la piazza dei sogni
non cullarti nella speranza
nella gioia o nell’amore
questo è il palco dei servi e dei corrotti
dei vili piduisti e del rancore
E ognuno di essi sarà più felice di te
Superbo nell’odiare
dominante quand’è odiato
Alle nostre figlie
ventre dell’infinito
occhi della pietà
dalle nostre labbra impareranno
l’ingenuo e terribile passaggio
dall’essere donne all’essere carne
apprenderanno l’affanno
che ci è costato
pretendere un posto, un nome
la dignità di esser vive
e rivenderlo a basso costo
nei laidi letti di un illustre cognome
Alle nostre figlie
mistificate demonizzate
crocifisse nude sugli altari delle chiese
dagli stessi schiavi, schiavizzate
figlie senza più orecchie né bocca
figlie senza più spazio né tempo
dalle loro madri, relegate
alla silenziosa vergogna
di inginocchiarsi a chi le imbocca
Figlia non mi guardare
non provare pena per me
se non ho avuto la forza di gridare
che sei donna e hai sapore, odore, colore
Cova odio nel tuo petto
se non ti ho amato abbastanza
da garantirti il sublime diritto, il rispetto
Ai nostri fratelli
persi nella nebbia del ricordo
scivolati in una goccia di vino
ai nostri riflessi urlanti, bestemmianti
che invocano un dio mancino
che non abbia mani solo per i santi
solo per le dinastie dei potenti
che getti una fune anche qua
dove non teniamo né mense
né aristocratiche vesti sacrosante
ma la fame la sappiamo a memoria
più di chi la racconta e la eleva
come fosse beata gloria
Ai nostri fratelli
dal profilo emaciato
dall’anima chiusa in un ampolla alcolica
che hanno perso le chiavi della strada
e l’indirizzo
trovando invece l’amarezza d’accontentarsi
di un qualunque stipendio, un qualunque posto fisso
A nostri fratelli
che hanno smantellato e rialzato ideali
mettendo da parte tutte le volte
come un segreto
tutte le piume appassite delle loro ali
Ai nostri altri
che siano da una parte o da un’altra
confusi come noi
come noi logori
privati, scherniti, umiliati
come noi derubati
dal diritto di affermare:
Io sono. Io penso…
io vivo. Io
…non sopravvivo.