“Va, pensiero sull’ali dorate;
Va, ti posa sui clivi, sui colli,
Ove olezzano tepide e molli
L’aure dolci del suolo natal! […] Oh mia patria sì bella e perduta!
O membranza sì cara e fatal!”
“Il 9 marzo del 1842 Nabucco debuttava come opera patriottica tesa all’unità ed all’identità dell’Italia. Oggi, 12 marzo 2011, non vorrei che Nabucco fosse il canto funebre della cultura e della musica”.
Così ha esordito il direttore d’orchestra Riccardo Muti alla prima del Nabucco al Teatro dell’Opera di Roma. Aggiungendo, dopo il famoso coro del terzo atto (quel Va, pensiero che ha animato i patrioti di un secolo e mezzo fa): “Sono molto addolorato per ciò che sta avvenendo, non lo faccio solo per ragioni patriottiche ma noi rischiamo davvero che la nostra patria sarà ‘bella e perduta’, come dice Verdi. E se volete unirvi a noi, il bis lo facciamo insieme”. Tutti gli spettatori si sono allora alzati in piedi tra applausi e volantini e hanno cantato insieme ai cento coristi un ormai raro Va, pensiero intriso di spirito risorgimentale, brano che da sempre rappresenta il riscatto dignitoso, viscerale ed ancestrale di un’Italia che unita e libera vuole essere, alla luce di un sincero amore patriottico.
Il Nabucco è infatti considerato l’opera più risorgimentale di Giuseppe Verdi: gli italiani dell’epoca, oppressi dal dominio austriaco, si riconobbero nel dolore degli ebrei soggetti al dominio babilonese, nel lamento di un popolo che aveva perso tutto ma non la dignità, che aveva ancora la voglia e la forza di esistere, di lottare, di esprimersi in forma corale, unitaria.
Qualcuno potrebbe forse pensare che la portata sacrale di cotanti valori e dei loro 169 venerandi anni meriti rispetto. E invece, nell’Italia del 2011 la manomissione delle parole, del pensiero, delle idee ha colpito anche questo simbolo lirico del Risorgimento italiano: ad oggi, l’aria del Nabucco risuona negli appuntamenti di partito della Lega Nord come “Inno della Padania“, come colonna sonora portante dei comizi dei colonnelli e dei burocrati leghisti, poiché, a loro dire, il librettista Temistocle Solera apparteneva alla cosiddetta “corrente neoguelfa”, assertrice di un blando federalismo.
Nessun documento prova in realtà che Solera fosse favorevole al sistema federale, e tra l’altro Giuseppe Verdi era un fervente sostenitore dell’unità nazionale: patriota convinto, partecipò attivamente alla vita pubblica del suo tempo e ai moti risorgimentali (tanto che – durante l’occupazione austriaca – la scritta “Viva V.E.R.D.I.” assurgeva ad acronimo di “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”); fu perfino membro del primo parlamento del Regno d’Italia (1861-1865) e senatore a vita. Insomma, egli rappresentò per molti italiani la summa di quei genuini sentimenti che li guidarono all’unificazione nazionale.
Neanche questo, però, è stato sufficiente a fermare gli intenti mistificatori di un partito politico di maggioranza con un leader che, a pochi giorni dai festeggiamenti per il 150° compleanno dell’Italia, continua a sostenere che “Cavour era federalista, la promessa e l’impronta federalista sono state fondamentali nel percorso di unificazione del Paese. Senza questa premessa e senza questa impronta i Lombardi non ci sarebbero mai stati a finire sotto il Piemonte. Poi il re in qualche modo ha tradito perché ha imposto il centralismo. Oggi è arrivato il momento di riprendere quella promessa e mantenerla compiendo davvero la storia” (U. Bossi).
Allora, se permettiamo con connivenza che questi faziosi furti di simboli nazionali si verifichino sotto gli occhi di tutti, forse Valerio Evangelisti dice il vero: “Il Risorgimento è divenuto tanto ‘ufficiale’ da non esistere nemmeno, se non in un’iconografia tanto onnipresente quanto neutra, fatta di statue e di cimeli. Cose di pietra e di metallo, insomma. Inesorabilmente fredde come soprammobili cui non si fa più caso, tanto sono abituali.”
Allora, forse siamo un popolo che ha perso la sua dignità, che non merita di festeggiare i suoi 150 di esistenza: le parate, le frecce tricolore, i discorsi di Napolitano, i buonismi sull’importanza dell’unione del popolo, sull‘importanza di scardinare la dicotomia polentone/terrone… che senso hanno il 17 marzo, se questa esistenza nazionale è soltanto formale, in qualsiasi momento minacciata dalla voce rauca di un uomo incolto, malato, ossessionato dal termine “federalismo” e dall’odio per quei terroni che un’altra parte del paese tenta di far accettare come “italiani” tanto quanto?
Non c’è un senso coerente a tutto questo, anzi! La naturale evoluzione della compresenza di forze politiche patologiche, ma popolarmente legittimate, è stata l’infinita polemica sui festeggiamenti di questa sudata, insanguinata e (non) realizzata unità: 150 anni di cattivi gusti nazionali. Imperituri.
Per parte mia, io mi ritrovo non nello spirito di chi andrà a celebrare una rivoluzione (in)compiuta 150 anni fa, ma in quello di chi abita un‘Italia-Malincònia che la rivoluzione deve e vuole ancora farla per non essere più il Paese da cui tutti se ne vanno, per affrancarsi da una situazione sociale, culturale e politica «più grave di un basso tuba».
A quattro giorni dal 17 marzo, Caparezza ha fotografato il mio momento italo-patriottico con le sue parole più crude e nasali:
“Cervelli in fuga, capitali in fuga, migranti in fuga dal bagnasciuga
È Malincònia, terra di santi subito e sanguisuga
Il Paese del sole, in pratica oggi Paese dei raggi UVA
Non è l’impressione, la situazione è più grave di un basso tuba […] Metti nella valigia la collera e scappa da Malincònia
Tanto se ne vanno tutti! Da qua se ne vanno tutti!
Non te ne accorgi ma da qua se ne vanno tutti! […] Goodbye Malincònia, come ti sei ridotta in questo stato?
Goodbye Malincònia, dimmi chi ti ha ridotta in questo stato.”
Il suo ultimo cd scalza l’illusione sognante e dignitosissima del Nabucco verdiano con un più attuale inno agli eretici italiani, a quei pochi individui che possono ancora parlare, agire, guardare cosa accade senza dormirci su; è un grido di speranza senza speranza, pronunciato per risvegliare dal suo coma letargico questa vecchia Italia-Melancònia e noi italiani, spettatori assopiti dei nostri stessi eventi. Spettatori che assistono ai fasti decadenti di uno Stato che si accinge a festeggiare se stesso e la sua nascita con orgogli riesumati non si sa da dove.
Ma “non siete Stato voi che sventolate il tricolore come in curva e tanto basta per sentirvi patrioti” (Caparezza).
…E tutto sommato, qui non c’è tanto da stupirsi che Repubblica titoli ironicamente un articolo sui 150 anni dell‘unità d‘Italia: Unità d’Italia? La festa è all’estero, evidenziando come il 17 marzo sia un inatteso ponte festivo in cui l‘italiano-medio, piuttosto che interessarsi alle mete risorgimentali, prenota soggiorni a New York, Praga, Londra e Sharm. No; non c‘è da stupirsi più di nulla.
“Oh mia patria sì bella e perduta!”
E sono quasi 54mila giorni; tanti auguri.