L’Italia del trasformismo

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” è la frase più famosa de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, citata forse troppe volte come esempio della tendenza trasformistica italiana. Ma se nella letteratura vogliamo trovare delle tracce della nostra storia, forse bisogna volgere lo sguardo un po’ più lontano, negli anni di chi quell’unità d’Italia l’ha vissuta e l’ha raccontata attraverso il suo sguardo da verista. Uno sguardo freddo, distaccato e addirittura cinico verso la storia e i cambiamenti che stavano allora avvenendo. Lo sguardo di Federico De Roberto, scrittore catanese nato 150 anni fa, come la nostra cara Italia. Nel 1894 pubblica I Vicerè, non a torto definito romanzo storico, storia della nobile famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza, i Vicerè della Sicilia di antica discendenza spagnola. Il romanzo si svolge negli anni che vanno dal 1855 al 1882, mostrando i momenti più importanti della storia italiana, dal Risorgimento all’Unificazione, narrati come sfondo degli eventi che coinvolgono la famiglia Uzeda. Le meschinità, la grettezza morale, l’avidità smodata, l’ambizionismo, le inimicizie, sono tutti elementi che costellano l’opera e caratterizzano la famiglia Uzeda, perennemente lacerata da conflitti interni, i cui membri sono legati dal solo privilegio della casta e dalla difesa di una supposta superiorità sociale. Ma De Roberto si spinge oltre e caratterizza tutti i personaggi in maniera cinica: tutti sono contrassegnati dalla doppiezza morale e dall’ipocrisia, agiscono solo per mero interesse personale e non vogliono perdere in nessun modo i propri privilegi, anche a costo di scagliarsi l’uno contro l’altro, padre contro figlio, fratello contro fratello, zii contro nipoti. Nulla ha importanza, nemmeno la famiglia. O meglio, l’unica cosa che conta è il potere, il denaro, la propria posizione sociale. L’unica cosa che conta è il nome Uzeda. L’intero racconto è impregnato di metafore, come la pazzia che è metafora della degenerazione dell’intera famiglia, così come pure dell’Italia intera. E non ci sono personaggi positivi. L’unica figura diversa da tutti gli altri è Giuliente, un intellettuale borghese, che riesce a sposare la più giovane figlia della casata Uzeda, Lucrezia; è colto e romantico, ingenuamente idealista, ma proprio per questo incapace di opporsi al cinisco della nobiltà. Anche Giuliente è una metafora dell’Italia, di quell’Italia che non riesce a cambiare ed è sempre dominata dai soliti pochi; crede nella democrazia, nell’unità, ma si accorge ben presto di quanto tutto sembri essere solo una menzogna:

“Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d’un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!”.

Si percepiscono qui l’amarezza, la delusione, la sfiducia che attraversano il romanzo intero, ma che sono anche espressione dell’animo di De Roberto. Figura significativa del romanzo è quella di Consalvo, il bambino che vediamo crescere e diventare adulto, figlio del Principe di Francalanza. Consalvo rappresenta emblematicamente il trasformismo italiano, capace di rinnegare se stesso, quello che è stato, pur di non perdere il potere. Ma per capire meglio, bisogna leggere le sue parole. Siamo nel 1882, anno delle elezioni (anno in cui inizia il governo Depretis e si inaugura la politica del trasformismo!): dopo aver tenuto il suo discorso pubblico prima delle elezioni, sostenendo di volere solo il bene per il popolo e di essere fedele alla democrazia, Consalvo va a trovare la zia Ferdinanda, la più ostile all’Unità d’Italia, all’avvento dei Savoia e alla fine del Regno delle due Sicilie. Ritroviamo nel loro dialogo le pagine più significative di tutto il libro, quelle che condensano il realismo pessimistico di De Roberto.

«Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me… Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono… Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla… Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese… Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s’è raggiunto… Creda che duole a me prima che a lei… Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d’incanto?»  Non una sillaba di risposta. «Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: “Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento”. Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile… E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo… o anche la testa!… Le avranno forse detto che un’elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che dice il Mugnòs del Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare al proprio posto… e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!…» Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle proprie vedute; ma, poiché la vecchia non si muoveva, pensò che forse s’era assopita e che egli parlava al muro. S’alzò, quindi, per vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi spalancati. Egli continuò, passeggiando per la camera: «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento» […]. «Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!… […] Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male… Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»

E la razza italiana, è degenerata o è sempre la stessa? Di sicuro c’è qualcosa che non è mai cambiato nel modo di fare politica degli italiani. La nostra non è solo l’Italia delle escort e dei puttanieri, è l’Italia dei puttani, di quelli che si vendono al miglior offerente, che vendono il proprio voto per un posto qui e un posto lì. Esiste ancora il trasformismo? Beh, gli ultimi mesi ci hanno dimostrato che questo genere di politica è ancora vivo fra i nostri parlamentari: basta fare i nomi di Scilipoti,  Barbareschi, Napoli, Razzi. Il trasformismo fu definito, ai tempi di Depretis e Crispi, come “una serie di manifestazioni di immoralità e clientelismo fra i parlamentari, le quali culminarono più d’una volta in scandali e processi che agitarono l’opinione pubblica ed alimentarono il discredito nei confronti delle istituzioni”. Queste parole non mi suonano affatto nuove. Ma perché gli italiani non riescono ad essere coerenti nemmeno in questo? Perché dobbiamo sempre s-vendere noi stessi al miglior offerente? Che sia il corpo o i nostri ideali. Gramsci ci illumina e ci spiega che il trasformismo serviva per  “impedire lo sviluppo di idee potenzialmente pericolose per il sistema politico, evitando la formazione di un’opposizione organica – specialmente da parte del proletariato, delle classi meno abbienti – in grado di inserirsi nella lotta politica”. Fino a quando gli italiani si faranno governare da questi esseri così piccoli che vendono anche se stessi pur di avere un conto corrente multizeri? Riusciremo un giorno a tirare fuori la forza necessaria per ribellarci a tutti i sorprusi che quotidianamente siamo costretti a sopportare? Abbiamo davvero qualcosa da festeggiare per i 150 anni dell’Unità d’Italia? Io mi vergogno ogni giorno di più di quest’Italia che mi toglie il presente e il futuro, mi vergogno di questa classe politica che da anni cerca di distruggere i giovani con l’unico obiettivo di concentrare il potere nelle proprie mani. Poi succede che studio la letteratura e conosco autori come De Roberto (ingiustamente sottovalutato dalla critica) e mi sento fiera quando leggo i nomi di Pirandello, di Leopardi e di Dante nei libri di letteratura straniera: e mi sento così fiera di quello che abbiamo, di quella che è la nostra cultura e la nostra storia. Eppure non basta più. Ho bisogno di avere fiducia in questo Paese, nel mio Paese. Ma in questa settimana non ho molto da festeggiare: vorrei sentirmi italiana ed essere solo fiera di esserlo. L’immagine che userei per descrivere questi 150 anni d’Italia ce la regala sempre l’autore dei Vicerè: l’aborto di Chiara, la nascita di questo feto deforme, metafora della deformità della famiglia Uzeda. Ma anche metafora della degenerazione dell’Italia intera.

“A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo.”

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