di Rosita Baiamonte
Giusy aveva cinque anni quando qualcuno l’additò per la prima volta come “mongoloide”, brutto termine che in origine era usato per richiamare la tipicità dei tratti somatici, simile a quelle delle popolazioni mongole, dei bambini affetti dalla sindrome di Down. Quella volta Giusy si alzò in piedi e con coraggio disse: “Io non sono mongoloide, io sono Giusy, Giusy Spagnolo”.
Nessuno avrebbe immaginato che, vent’anni dopo, la stessa Giusy Spagnolo sarebbe stata proclamata dottoressa in Beni Demoetnoantropologici della Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, con una votazione di 105/110, stabilendo un vero e proprio record: Giusy è la prima donna down a conseguire una laurea.
È un risultato strabiliante, perché ci da la conferma che niente può esserci negato, anche se sulla carta le chance di farcela sono poche o quasi nulle. Essere “down” fino a qualche anno fa rappresentava una vera e propria condanna. Si era condannati a rimanere ai marigini, a essere etichettati come disabili, ritardati, minorati mentali. Sempre un passo indietro. Tanto che avere dei figli con la sindrome di down era considerata una disgrazia per i genitori, e i casi di abbandono si sprecavano negli ospedali di tutto il mondo. Questa era la loro condizione: rifiuti umani, considerati un peso da sopportare in senso cristiano, la croce a cui ogni buon cristiano deve appoggiarsi per acquisire la Fede, oppure da gettare via.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a un’inversione di tendenza, c’è una maggiore attenzione verso questi ragazzi, alcune scuole promuovono piani di insegnamento ad hoc , laboratori teatrali, corsi di cucina, di pittura, qualsiasi cosa possa far loro esprimere l’immenso mondo che hanno dentro, fatto di sorrisi dolcissimi, di gesti gratuiti, di affetto incondizionato. Io stessa ho avuto un’esperienza diretta con un compagno di scuola affetto dalla sindrome di Down, un ragazzo dolcissimo, ma poco seguito dalla famiglia, e fin da allora ho capito quanto la famiglia rappresenti il nucleo più importante per permettere a questi ragazzi di aprirsi al mondo, di pretendere da loro stessi di più, di non rassegnarsi alla loro condizione ma di migliorarsi ogni giorno, sebbene per farlo debbano sforzarsi il doppio.
Giusy è un esempio lampante di quanto questo non sia più solo un miraggio, una bella speranza, ma una realtà. Giusy ha avuto alle spalle una famiglia solida, che ha creduto in lei da sempre, che le ha insegnato a vedere la sua condizione non come una condanna ma come una declinazione della sua esistenza. Certo, ha dovuto sforzarsi moltissimo, essere seguita, accompagnata in questo percorso, ma senza una volontà di ferro questo non sarebbe mai accaduto, senza un padre che ti guarda con amore, vedendo in te solo una meravigliosa ragazza e non un problema da affrontare, questo forse non sarebbe accaduto. Ha dovuto soprattutto sfidare le spietate regole della società che ci vuole tutti omologati, determinati, spietati, perché il mondo del lavoro è una giungla e bisogna sgomitare per farsi largo, e come potrebbe farlo un ragazzo down, col carico di fragilità e pregiudizi che si porta appresso fin dall’infanzia? Se anche i “normodotati” fanno fatica a emergere in questo marasma chiamato vita?
Alcuni soccombono, altri invece riescono in tutto, perché la loro voglia di farcela è più forte.
La strada è ancora lunga e piena di insidie, ma per oggi respiriamo a polmoni aperti questa nuova ventata di aria fresca.
Grazie per questa bella notizia, non lo sapevo!
Lavoro con questi ragazzi, li vedo nella loro dolcezza e disponibilità e comprensione, e leggere questo articolo mi ha dato molta gioia: è un riscatto metaforico ed in potenza per tutti. Lo meritano loro, ed in un certo senso lo “merita” anche questa collettività.