Un nome: 5 Pointz. Un luogo: New York.
Magari ad alcuni questo nome e questo luogo insieme non suggeriranno nulla, ma per altri, il 5Pointz, nella periferia di Long Island, nel quartiere Queens di New York, è un simbolo, un monumento, il supporto architettonico di una forma d’arte, un sito sacro della cultura Hip Hop.
Un edificio industriale, un luogo che nell’Ottocento era considerato malfamato, alto cinque piani, oggi ricoperto interamente dalle opere dei più grandi “graffitari” degli ultimi 25 anni, che si sono ritrovati lì, davanti a quei muri, un tempo immacolati ed insignificanti, a dare libero sfogo alla loro fantasia, al loro istinto creativo. Hanno trasformato in venticinque anni un “non luogo” in un “luogo”. Identità, senso di appartenenza si sono impadroniti del luogo di nessuno, facendolo diventare proprio, mettendo il proprio nome su pezzi di muro, trasformati in tele urbane, in quell’arte splendidamente democratica di cui tutti possono godere. Un pugno di colore, di creatività nel centro di una periferia. Le tag, ed i graffiti hanno messo le radici della cultura Hip Hop in questo edificio che sorge a due passi dal capolinea della linea 7, in cui i writers tra gli anni Ottanta e Novanta si recavano per creare a colpi di bomboletta. Ma il quadro non è ancora completo, manca un nome, quello di Jonathan Cohen (Mares), storico writers che ha pensato e realizzato il progetto del 5pointz, lui l’ha trasformato nella tela pubblica che oggi è. Dal 2001, gestisce questo posto cercando di regolare l’uso degli spazi, per trasformare un ex magazzino, in un museo a cielo aperto, e che insieme al 5pointz collettive, aveva pensato di poter realizzare una sorta di “Moma dei graffiti”.
Adesso sapete cos’è il 5pointz, provate ad immaginarvi là, sotto quei cinque piani di arte, di colore, di espressione, una botta al cuore, alla testa. Arte, sindrome di Stendhal, sì, proprio quella, quella tachicardia, quelle vertigini che arrivano davanti alla maestosità, alla grandezza che delle volte sprizza fuori a colori, a parole e a suoni dagli uomini.
Ma l’arte è nulla, è nulla di fronte al profitto a meno che essa stessa non possa essere venduta, marchiata. E così, il proprietario di quell’ edificio industriale, che sta sotto l’espressione artistica, decide di vendere, di vendere la “sua proprietà” per trecento milioni di dollari, a chi vuole distruggere il “moma dei graffiti” per costruire un nuovo centro commerciale, abominevole, aberrante. Forse un prezzo potranno averlo le fondamenta, il terreno su cui sorge, ma quello che c’è impresso sopra, il significato delle tracce a colori su quel pezzo di cemento, le identità che si sono fondate su quella fusione di luogo, gente, musica, ed espressione, possono avere un prezzo? Ma cosa ancora peggiore del voler comprare, è il voler distruggere. Un prezzo non viene dato, perché ne manca la considerazione del valore. Perché quegli uomini, non riescono a guardare aldilà delle forma trapezoidale di un palazzo su un terreno posizionato in una zona potenzialmente appetibile per un centro commerciale, così la loro miopia del lucro, fa apparire quei graffiti come degli scarabocchi offuscati, non ben definiti, su ciò che hanno stimato possa valere trecento milioni di dollari.
Tutto ciò è uno scandalo, una mortificazione per noi tutti. Che prezzo ha il consumo? Siamo pronti a guardare e passare avanti?