di Delia Dattilo
L’Odissea teatrale di Francesca Vaccaro e delle “ulissidi” della sua compagnia sta tracciando, nel tempo, un itinerario fittissimo e intricato che, partendo dal nucleo indefinito e primigenio delle propensioni percettive e ricettive umane, passa attraverso il reticolato delle specificità attitudinali per ritornare all’informalità consapevole del sentire la vita nelle sue innumerevoli stratificazioni.
Cosciente della storia culturale occidentale e dei suoi deficit, la giovane regista ha decretato la personale demolizione degli imbarazzi che questa è stata capace di provocare nel corso del tempo dell’uomo e sui quali ha stabilito una dittatura della forma, svuotata di un senso che vuole fortemente recuperare e che è ricongiunto inconsapevolmente al mito: il senso della civiltà.
Un percorso, quindi, circolare, che proprio nella circolarità ritrova la ragione di una perfezione che non necessita della drammaturgia istituzionale per recuperare la forza della sua sussistenza metastorica, infrastorica, lucidissima.
Lo spettacolo di “denuncia” “Pentesilea – Stuprata Speranza” contesta l’assenza, nel teatro come nella vita, di un’adesione diretta dell’individuo con la realtà del dolore e delle lesioni in cui il tempo della sofferenza si erge a rappresentante di un piano ideale e simbolico della manifestazione e della cognizione non compromessa, ma compiuta nella suggestione.
La contestazione della Vaccaro non comporta, tuttavia, ermetismi linguistici e contenutistici, al contrario, produce una sorta di epifania nel e del travaglio che, a partire dalla condizione di solitudine, trova naturalmente una ricostituzione sociale nell’apertura alla qualità del disagio e alle ferite che, soltanto se riconosciute nella loro vera sostanza, possono, così, connettersi nella sede teatrale dove il ruolo della maschera viene esplorato secondo prospettive esistenziali e non teatrali.
Il titolo dello spettacolo, dedicato alla figura mitologica dell’amazzone, concentra in sé l’allegoria della sofferenza fisica e gli oltraggi del corpo, autoinflitti e subiti a causa delle costanti esposizioni al mondo esterno, dove tenta di esprimersi la nobile precarietà del femminile.
La mater dolorosa di cui abbiamo testimonianze storiche ed epiche, reali o ideali; la mater la cui etimologia l’associa alla materia, quindi al contenuto che, in quanto tale, è suscettibile in ogni istante di violazione e metamorfosi spesso violente e, per quello che è, presuppone un contenitore, anch’esso passibile di mutamenti critici, etici.
Alter ego – dualità – relativismo: Francesca Vaccaro intende porre un accento sull’importanza della presa di coscienza della costante duale, su cui si edifica la vita: maschio-femmina, fuori-dentro. L’esposizione dell’alter ego femmineo di un simbolo universale del vigore, quale Achille, sul quale, stando alle fonti mitologiche, l’amazzone Pentesilea prevale vittoriosa; un trionfo che la donna paga amaramente attraverso la divina punizione, nel vilipendio del corpo.
Una storia di perdita della propria integrità, sacrificata per mettere a tacere il relativismo e privilegiare l’idea dell’assoluto, che è maschile ma, da millenni, è avallato dalla remissività del genere femminile.
Ecco allora che alla denuncia viene riconsegnato il suo valore originario, per il quale torna a essere il propulsore sociale dell’indagine delle proprie macerie riconvertibili – attraverso un atto di coraggiosa meta-archeologia – nella mater animata, nella vera narrazione collettiva che scolpisce nel tempo il grande Episodio Umano.