«E Dio disse ad Abramo: Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». (Genesi, cap.22)
La nostra allegra cultura di matrice cristiana ci ha costretti a familiarizzare sin dall’infanzia con un concetto molto complesso che è forse tra i più studiati e su cui centinaia di studiosi, antropologi e vattelapesca hanno versato fiumi di inchiostro. Il sacrificio, parola che anticamente, presso tutte le culture di cui è punteggiato il nostro mondo, aveva un’accezione puramente religiosa, una sorta di do ut des, di scambio con la divinità di turno al fine di ottenere la remissione delle colpe e la liberazione da una delle tante piaghe che, secondo loro, il dio infliggeva in preda all’ira.
Ci furono poi gli ebrei che si appassionarono talmente al sacrificio da riempire tutto un libro di episodi colmi di sgozzamenti, infanticidi e quant’altro uno stomaco abituato a mangiare erbe amare e pane azzimo potesse tollerare. Dai tempi di Caino e Abele, ogni ebreo, uomo comune o sommo sacerdote era obbligato a sacrificare un animale. La grandezza di quest’ultimo dipendeva dalle condizioni economiche del sacrificante. Per intenderci, se eri un pezzente magari con a carico una moglie lebbrosa e un figlio cieco, potevi sacrificare l’unica tortora in tuo possesso, così Dio avrebbe gioito nel vederti leccare le pietre per il pranzo di Hanukkah. Se eri ricco, addirittura una capra o un torello. E c’era sempre il pericolo che Dio, infinitamente buono, non gradisse la tua offerta.
Tornano così alla mente il sacrificio di Isacco, il sacrificio dell’umanità nell’episodio di Noè, quando Dio, infinitamente buono, si pentì di aver creato l’uomo e volle sterminarlo, poi Mosé e così via fino ad arrivare al sacrificio più famoso e fondante della religione cristiana: Cristo che si sacrifica per salvare il genere umano e inaugurare il Paradiso, visto che milioni di persone dalle origini fino alla sua epoca erano finite all’Inferno, non essendoci altri alloggi e Satana era alquanto afflitto da quel sovraffollamento.
Dal sacrificio biblico, si passa a quello richiesto dalle madri disperate al proprio figlio che non ne vuole sapere di mangiare: ”Dai, fai ‘sto sacrificio!”. Oppure al sacrificio che i genitori fanno per dare una TV 3d al figlio pluribocciato. O a quello di milioni di nativi americani necessario affinché gli Stati Uniti potessero nascere e crescere. C’è stato il sacrificio richiesto agli italiani da Mussolini, senza il quale “non si conquista nulla nella storia”. C’è chi sacrifica la propria vita in senso metaforico per aiutare un fratello in difficoltà. Berlusconi si è generosamente sacrificato per noi tutti.
Ci hanno insegnato che i nostri soldati sacrificano le loro vite per la nostra incolumità. Molte donne sono state criticate per aver sacrificato la propria carriera per i figli. C’è chi rinuncia a tanto, a troppo, per arrivare a sostenere le spese domestiche e mantenere una famiglia. Michelle Hunziker ha fatto molti “sacrifici” per arrivare dov’è.
Senz’altro, i più sacrificati e sacrificabili siamo noi, gli italiani. Attenzione, non gli italiani in generale, ma unicamente quelli che non hanno più manco gli occhi per piangere. Regolarmente ogni governo ci chiede innumerevoli sacrifici, per rattoppare buchi creati da incapacità e attitudine allo sperpero per fini personali. Ed è l’operaio, l’impiegato a mettere sull’ara votiva il proprio stipendio nella speranza che ciò possa servire per fare avere un futuro migliore ai loro figli. Non sapendo che, proprio come in tempi lontani, il loro Dio del momento è raffreddato e non percepisce i fumi di quei martìri.
Berlusconi si lamentava: “Stare a Palazzo Chigi ed essere il leader del Centro destra è un sacrificio”. E poi ancora il nuovo premier che richiede, giustamente, dei sacrifici “equi” per risollevare l’Italia da una crisi gravissima. Sul fatto che siano più o meno equi se ne può discutere.
Fatto sta che la parola “sacrificio” è diventata la chiave di volta della nostra vita, senza di esso pare che l’uomo non abbia possibilità alcuna di condurre un’esistenza dignitosa. Per indorare la pillola ci hanno sempre fatto credere che sacrificarsi significa aver trovato uno scopo così sacro, così grande per perseguire il quale vale la pena immolare se stessi e far confluire in esso quella poca energia che ci rimane per il bene comune.
In realtà credo che, ormai, immolarsi serva a poco.
Duecento anni fa qualcuno scrisse: “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia”. Nulla di più attuale.
Ad Elsa e alle sue lacrime.
Perché almeno, adesso, c’è un membro del governo
che piange sulla nostra tomba.
Micacazzi!