di Giorgia D’Ignoti
Diversamente dal Corso di Laurea in Medicina, gli studenti infermieri sono sottoposti, fin dall’inizio, al tirocinio in reparto.
Inutile descrivere ciò che succede al primo turno in corsia: persone che si vantano di aver vissuto a pane e C.S.I. svengono di fronte ad una ferita infetta o ad un odore non particolarmente invitante; altri invece, giovani James Bond in erba con licenza di uccidere, effettuano prelievi ed esami che anche gli infermieri con vent’anni di esperienza hanno delle difficoltà ad eseguire. C’è chi elegge come mentore il proprio tutor/infermiere, con tanto di cappelletta privata nella stanza e fotografie sotto il cuscino da baciare ogni sera, e c’è chi critica qualunque cosa veda fare diversamente da quanto viene insegnato sui manuali. C’è chi sviluppa un cinismo sorprendente che dovrebbe fungere da protezione contro il coinvolgimento emotivo, e c’è chi per il troppo coinvolgimento fugge a gambe levate, per andare a lavorare in tutt’altro ambiente.
Sono una studentessa infermiera e ho visto ognuno di questi tipi di persone attorno a me. Ciascuno di noi reagisce differentemente all’esperienza in reparto, ma se qualcosa ci accomuna, è quella di essere studenti del rinomato, iper-tecnologico, Policlinico di Palermo. È per questa ragione che dovrei aggiungere un’ultima categoria a quelle prima elencate: lo studente che si scoraggia e che vorrebbe mollare tutto, di fronte alla realtà che offre la sanità palermitana.
Lungi da me impelagarmi in una discussione critico-politica; la nostra sanità è quella che è, lo sappiamo tutti, chi più chi meno. Tuttavia una domanda preme, preme così tanto da non poter evitare che venga fuori: i signori che si riuniscono per decidere quanti soldini vadano ad un ospedale e quanti ad un altro, sanno realmente a cosa sono destinati questi soldi?
Ho vissuto due anni a stretto contatto con le persone ammalate, leggo nei loro occhi la sconfitta che fa a botte con la speranza. Ho visto denti stringersi per nascondere il dolore e mani abbandonarsi tra le mie alla ricerca di un conforto. …Con che coraggio posso spiegare quello che siamo costretti a vivere ogni giorno e che siamo costretti a far subire a loro?
Un esempio come un altro. Arrivo in reparto una mattina e scopro che mancano tutte le siringhe, ad eccezione di quelle da 20 ml, il cui ago sembra venir fuori da uno dei Saw – L’Enigmista e che se fa paura già a me, figuriamoci a quel poveretto a cui tocca il prelievo. E, per la cronaca, le vene mica sono come quelle che vedete sulle vostre braccia, tubi che sembrano autostrade americane a quattro corsie! Il più delle volte, in pazienti sofferenti, anziani, con malattie cardiache o vascolari, le vene sono introvabili, minuscole e fragili per le quali l’ago dovrebbe essere di dimensioni minime. Mancano le siringhe adatte, e che si fa? Buchiamo tre, quattro volte il malcapitato con quegli spiedini sterili e ci auguriamo che la sua soglia del dolore sia alta, anche se sappiamo che non facciamo altro che mentire a noi stessi per alleviare il peso della nostra colpa. Che poi, se dobbiamo dirla tutta, colpa non ne abbiamo; ma quando dopo atroci sofferenze, il paziente ti sorride e ti ringrazia per le cure che gli stai dando… come fai a non provare vergogna? Come fai a non pensare che se gli strumenti fossero tutti a nostra disposizione, le cure sarebbero migliori?
Sono una studentessa e, in due anni, ne ho viste di cotte e di crude. Ho visto chiudere un intero reparto perché non c’era un tecnico che aggiustasse l’ascensore, ed ho visto tenere aperto un reparto in cui si era diffusa una malattia infettiva, in modo da non alzare un polverone.
E sebbene dentro al meccanismo ci sia anche io, e sebbene io debba ingegnarmi a trovare soluzioni che sopperiscano alla mancanza di risorse, e sebbene a volte io sia costretta a chiudere entrambi gli occhi di fronte alle ingiustizie che imperano in quello che, più che essere un ospedale, è una giungla… mi chiedo: quando ci renderemo conto che a farne le spese sono degli esseri umani come noi? Quando ci renderemo conto che se ci muovessimo per far migliorare il sistema, potremmo beneficiarne tutti?
A volte capita che un paziente reagisca con rabbia e, in cambio delle nostre “attenzioni”, ci regali insulti e auguri poco gentili che ci vedono condannati al suo posto. Noi andiamo avanti, qualcuno col cinismo di cui parlavo all’inizio, ma riflettendoci su un istante… e se capitasse a noi?
Giorgia è una mosca bianca, come lo ero io fino a qualche tempo fa, quando ancora ero costretta a “subire” il tirocinio all’AOUP “Paolo Giaccone” di Palermo. Non posso fare altro che confermare tristemente quanto già scritto. Ho passato tutto il primo anno tornando a casa piangendo, a causa delle ingiustizie e dei favoritismi cui ho dovuto assistere.
Giusto per ricollegarmi alla questione delle siringhe, anche a me accadde una cosa simile.
Ricordo il mio primo prelievo per la radioprotezione, quando il radiologo mi disse che le siringhe erano terminate e mi fece un prelievo con una siringa da contrasto. Da quel giorno comprai io stessa in farmacia gli aghi a farfalla da utilizzare per i giorni dei prelievi.
Ricordo la rabbia provata di fronte a due scene che hanno cambiato radicalmente il mio modo di vivere la vita in ospedale.
1. Un giorno venne in Radiologia una coppia non proprio benestante, avranno avuto al massimo 25 o 26 anni. La ragazza ci disse che non aveva soldi e chiese di farle un’ecografia, poiché era incinta, aveva fortissimi dolori al ventre ed aveva già affrontato in passato un aborto spontaneo. L’infermiera in accettazione le spiegò che non era possibile, perché quel genere di ecografie venivano fatte in Ginecologia, non in Radiologia. Di fronte allo sconforto della coppia, non poté far altro che consigliarle il metodo più ovvio per evitare di pagare l’ecografia ed aspettare troppo tempo per la prenotazione di una visita: effettuare l’indagine tramite un’accettazione dal Pronto Soccorso. Non appena la coppia andò via, entrò nella stanza una dottoressa, allora specializzanda, che fece una vera e propria “cazziàta” all’infermiera, poiché non doveva permettersi di consigliare alle persone metodi per non pagare gli esami. L’infermiera le rispose che non aveva potuto fare altro, che quella ragazza poteva essere sua figlia, che aveva già avuto un aborto spontaneo e che aveva il dovere di fare tutto il possibile per aiutarla. La risposta della dottoressa ci lasciò pietrificate: “Beh, posso capire che quella persona fosse una sua parente, ma era persino una sconosciuta…!”
2. Un anno fa mi capitò di assistere ai servili baciamano di molti colleghi di fronte ad un ex magnate della sanità siciliana, adesso in carcere, che venne in Radiologia per effettuare una risonanza magnetica. Da quei comportamenti capii che molti di essi lavoravano al Policlinico proprio grazie ai favori ricevuti da quella persona. A nulla servirono le sentite proteste che inviai qualche giorno dopo al mio Coordinatore, se non ad essere trasferita per qualche mese in un altro ospedale.
Da quel giorno, non capivo perché mi sentissi sempre di malumore e non volessi più andare a fare tirocinio. Questo malessere è durato per mesi, fino a quando non gli è stato dato un nome: sindrome da burn-out nelle professioni sanitarie. Un problema cui vanno incontro sempre più soggetti dell’area socio-sanitaria, svanito improvvisamente nel giorno della Laurea.
Ricordo come al Policlinico non si effettuino concorsi da decenni perché ci sono i tirocinanti che reggono i reparti, lavorando senza alcuna retribuzione per 6 ore al giorno e facendo tutto quello che gli strutturati non hanno la minima intenzione di svolgere. Come un sabato mattina, più precisamente il 16 maggio del 2009, quando mi ritrovai da sola con una collega, anch’essa tirocinante, in Medicina Legale ad effettuare radiografie su due morti ammazzati (ed ancora sanguinanti) di un clan di Misilmeri, altrimenti non si sarebbe potuta effettuare l’autopsia.
Quello che posso dirti, Giorgia, è questo: tutti questi avvenimenti, seppur orrendi, mi hanno lasciato qualcosa di buono, ovvero il costante pensiero di non voler far parte di questo sistema e di dare ogni giorno il 100% al lavoro. Oggi saremo solo noi due, domani altre quattro persone, e così via. Non farti abbattere, mi raccomando. In bocca al lupo.
Cara Giulia,
Sono lieta di leggere il tuo commento. Non posso che rimanere sconcertata per quello che dici, ma d’altro canto non mi stupisce più di tanto ciò che hai vissuto.
Giusto oggi ho avuto modo di vedere che “tutto il mondo è paese”, con i disservizi di un altro ospedale palermitano quale “Villa Sofia”… Be’, magari ne parlerò in seguito in un altro articolo.
Per quanto riguarda questo articolo, purtroppo queste realtà gettano molto sconforto in chi, come me, crede che la vita sia tutta rose e fiori, in cui la giustizia regna sovrana. Una cosa che ho imparato nel mio percorso e che non si trova scritto in nessun manuale è che il sistema gira per il verso sbagliato e tu devi avere la forza di ricordare SEMPRE quali sono gli ideali che ti hanno spinto a perseguire questa strada. Nel mio piccolo, io tenterò sempre di guardare gli occhi di un mio paziente e leggervi la speranza che io gli dia le migliori cure possibili.. Perché penso che vedere la sofferenza negli occhi delle persone sia un incentivo che potrà sempre aiutarmi a fare il mio mestiere con passione, senza adeguarmi ai meccanismi deviati che imperano.
Come già detto a Giorgia ho trovato molto interessante questo articolo, nonchè l’eccellente commento a suo corredo, in quanto siamo abituati a conoscere l’altro lato della barricata, quello dei pazienti. Ci lamentiamo spesso per i disservizi, a volte prendendocela con le uniche persone che vediamo: infermieri e medici. Purtroppo fate parte del front-office che, come per i call center che fanno assistenza, in genere prende tutte le lamentele e a volte anche gli insulti. Certamente il fatto che a subire il cattivo servizio sia un malato innalza il livello di stress e i toni.
Le vostre belle parole però mi lasciano una forte speranza e vi ringrazio per questo.
Se posso darvi un consiglio (poichè credo che anche voi che fate parte dei buoni nel tempo potreste essere stressati, stanchi, etc.) è quello di tenere un diario di quello che vedete e che non vi piace. Fra vent’anni potrete rileggere quel che avete scritto oggi e verificare che non abbiate percorso strade simili a quelle che oggi vedete storte.
Bella idea. Anche se spesso ci si abitua a tutto….