Dieci, cinquanta, cento, mille, diecimila, sessantamila…
Un minuto sei in fila per prendere il pane e il minuto dopo sei morto stecchito.
Non è una storia di ordinaria follia, la cronaca di un raptus americano col porto d’armi nei pantaloni, no. È la quotidianità in un Paese dimenticato da molti. In Siria si registrano in media centosessanta vittime al giorno, per lo più civili. Cinquemila vittime al mese, che da marzo 2011 ad oggi fanno sessantamila vittime circa. (È l’Onu a riportare i dati sul conflitto siriano).
In Siria la vita è cambiata. Questo è uno degli inverni più rigidi, si patisce il freddo e le città non riescono a far fronte ai disagi. L’Onu denuncia una situazione insostenibile. Gli ospedali sono quasi a corto di medicine, scarseggia la luce e l’acqua nei centri periferici. L’immondizia invade le strade e le epidemie dilagano. Edifici statali, scuole e uffici sono occupati da masse sempre più numerose che non possono più permettersi di scaldarsi nelle proprie abitazioni, ammesso che abbiano ancora delle abitazioni; bruciano così banchi, tavoli e sedie. La povertà aumenta, i prezzi salgono alle stelle.
Così si è ridotto un Paese che ha deciso di dire NO al regime: rimanendo solo. La diplomazia ha fallito e i governi restano inermi a guardare. Dico io, non si può far niente? I nostri telegiornali nazionali hanno perfino smesso di parlarne (in effetti in tv ultimamente si vede sempre e solo la solita vecchia faccia di culo). L’opinione pubblica si è addormentata sulle bacheche di facebook piene di programmi dietetici per il “dopo le feste…”. Avremmo bisogno anche noi di dire NO. E risvegliare il mondo dal torpore. Urlare affinché i governi si mobilitino e facciano il loro dovere di diplomatici. Giornali, giornalisti, TG, studenti scansafatiche che abbiano voglia di organizzare scioperi e cortei, organizzazioni sociali e umanitarie. Facciamo qualcosa! Facciamo pressione! Perché solo la pressione può far esplodere le polveri.
Sono esplose da sole.