Nell’Ottocento la filosofia si faceva in Germania e le lotte si facevano in Francia. Nella seconda metà del Novecento le lotte si facevano in Italia e la filosofia si faceva in Francia. (Toni Negri, 2004)
Spazio di socialità non significa niente e significa tutto al medesimo tempo. Richiamando la recente discussione circa il ruolo dei social network nelle nostre vite, gli argomenti che ho usato (sotto le – mentite – spoglie di DixiEtSalvaviAnimamMeam) sono ispirati da una serie di correnti di pensiero che nella seconda metà del Novecento hanno animato le discussioni filosofiche ed i movimenti sociali in Francia e in Italia: il desiderio, l’espansività del soggetto politico, le analisi del Potere e delle sue manifestazioni, l’incapacità istituzionale nell’intercettare volontà collettive in posizione di rottura con il sistema di produzione.
Nei commenti all’articolo di cui sopra sostenevo che la nozione di spazio, di luogo idoneo in cui far avvenire il contatto tra individui, si modifica con il cambiare dei mezzi tecnici e non è passibile di giudizi di valore, in quanto non avrebbe alcun senso logico. Un luogo offre possibilità all’azione, non è tout court buono o cattivo.
Quello che mi piace notare sul web, ma anche nella realtà fatta di cemento e monossido di carbonio, è la capacità di creare reti attraverso cui non si compie una semplice aggregazione sociale ma si prende possesso di un luogo altrimenti destinato all’abbandono. Gruppi sociali di differenti estrazioni politiche tendono sempre più ad opporre legalità e desiderio, potere costituito e volontà creativa. È così che siamo di fronte a diversi tipi di esperienze di occupazione, autogestione e riappropriazione di luoghi che diventano simboli di una resistenza giovane (ma non impomatata come il ciuffo di Matteo Renzi).
Il fenomeno richiederebbe studi approfonditi e seri; questo che sto scrivendo prendetelo come un pamphlet da leggere mentre siete seduti sul cesso, magari anche lì si riesce ad essere sociali.
Il 19 aprile 2013 gli studenti di varie realtà palermitane hanno occupato un luogo storico della città, l’Hotel Patria, ribattezzandolo HPO (Hotel Patria Occupato).
Spazioso e in buone condizioni, acquistato dall’Università degli Studi di Palermo nel 2000, finito di essere ristrutturato nel 2008 con lo scopo di farne uno studentato dell’ERSU (l’ente regionale per il diritto allo studio) è sempre rimasto chiuso a causa della mancata aderenza ai parametri legali di agibilità.
Questa esperienza di riappropriazione studentesca si colloca in una realtà italiana che tende sempre più ad astrarsi dai limiti asfissianti di una legalità insoddisfacente. Non solo Palermo ma anche Bologna, Roma, Pisa, Livorno, Catania, Milano, si fanno in questi mesi teatro di scontri tra studenti/precari/operai e forze dell’ordine. Molte le esperienze di creazione di spazi di cultura autogestiti all’interno di università (una per tutte HOBO-Bologna) e occupazioni di immobili a scopo abitativo (è nato da poco a Roma il progetto Dégage!).
In un periodo storico come questo in cui la distanza tra persone fisiche è colmabile da mezzi informatici, non si presenta più quello scarto temporale che per esempio poteva esserci negli anni ’60 e ’70 nelle comunicazioni tra realtà antagoniste italiane e francesi. Oggi ogni notizia è fruibile in tempo reale e molte volte non è solo informativa ma serve da memento, da ispirazione. A Parigi la pratica di occupazione e autogestione di spazi materiali è affine alla modalità italiana ma per certi versi diverge nell’attuazione e nel rapporto tra collettività e spazio fisico.
In Francia, non si può tradurre letteralmente la denominazione italiana “Centro Sociale”. Quando ho domandato ai miei amici francesi se conoscessero dei «centres sociaux» loro mi hanno guardato perplessi, non capivano bene a cosa mi riferissi in quanto loro chiamano così gli uffici di assistenza sociale in generale (fiscale, abitativa, associativa, lavorativa, ecc.). Poi, cercando di spiegarmi con larghe perifrasi, hanno compreso e mi hanno corretto dicendomi che quelli che intendo io, in Francia, si chiamano squat e basta. Io sapevo cosa fosse uno squat ma lo relegavo principalmente allo scopo abitativo e non associativo/culturale.
È interessante notare come a Parigi le due cose differiscano radicalmente pur chiamandosi con lo stesso nome. Ci sono molti palazzi occupati stabilmente da famiglie e altri luoghi in cui vengono organizzate svariate attività (riciclaggio, costruzione di mobili, corsi di teatro, musica, canto, danza, scrittura, pittura, ecc.). In Italia molto spesso le due cose coincidono, sono i centri sociali che si fanno abitazioni o studentati senza mai escludere l’aspetto ludico. In Francia il problema abitativo, molto probabilmente, ha un’incidenza più imponente nelle vite e negli immaginari.
Infatti abitare a Parigi, se non si ha un minimo di capitale di partenza, è economicamente difficile e non sono poche le persone che si trovano costrette a vivere per strada (i celebri clochards). Si stenta sempre a credere ai numeri delle statistiche ma per quanto riguarda il caso di Parigi e del suo hinterland, non ho molti dubbi sulla veridicità delle affermazioni: nel 2008 si contava un minimo di 8000 persone senza domicilio soltanto sulla superficie della capitale francese. Lo Stato francese non dispone di buone politiche sociali di aiuto per questo tipo di problemi e molto spesso questa gente muore per il freddo o per carenze legate a malnutrizione, dipendenza da alcool o da droghe.
Il problema dell’alloggio è così diffuso e dilagante da portare alla nascita, quasi regolare, di nuove case occupate. Immobili inutilizzati o fatiscenti vengono rimessi a nuovo e resi più o meno abitabili.
In ogni caso, che siano squat, centri sociali o blog-guerrilla, si assiste sempre più ad un aumento dell’autonomia normativa e organizzativa che, a partire da premesse differenti, tende verso un orizzonte comune di socialità in espansione.
E i circoli che sono quasi del tutto scomparsi? sono denominati pure centri sociali, come ho visto a Cervia e si usano per leggere qualche giornale, giocare a tombola per le feste o commentare le partite. Quand’ero piccolo seguivo mio padre al circolo della squadra del paese: un ambiente al primo piano zeppo di fumo, con le poltroncine e i quotidiani sui tavolinetti, i bicchieri vuoti di amaro… insomma luoghi di socialità e condivisione. ma i centri sociali che citi tu sono un’altra cosa ed ogni città europea ne ha almeno uno: si somigliano, hanno problemi con la polizia e in un modo personale fanno cultura. contro-cultura. se poi riescono ad offrire un alloggio a chi non ne ha le possibilità vuol dire che hanno risolto un problema che la burocrazia statale era incapace di superare.
Parole di mio fratello che fra dieci minuti dovrebbe essere al virgilio: “Fidate nun c’è”. Scusate il suo italiano ma uno di prima mattina dorme ancora. E pure se ci fosse, prima di commentare dovresti farci un giretto… come per tutte le cose, luoghi e avvenimenti. prima ci vai, vedi che si fa e che si dice, poi commenti, sempre e cmq nn generalizzando. La droga… ma tu sei mai stato in discoteca? sei romano, quindi conoscerai sicuramente il diabolika/scandalo/energie. ma l’hai mai vista la droga che gira? sei mai stato in discoteca a riccione e rimini? I morti per droga.. ne muoiono a migliaia ogni anno. nn puoi dire che è colpa dei centri sociali se è morto un ragazzo… si sarebbe drogato nel centro sociale, in un festino privato, ad un concerto o direttamente per strada. Ti consiglio (come ha già detto pfalco) di ascoltare curre curre Gagliò dei 99 posse. ascoltata riflettendo sulle parole, e senza pregiudizi.
Scusa Vito, ma questo tuo commento che significa? Perché dovrei essere romano? E, soprattutto, chi è Pfalco? Grazie in anticipo per l’attenzione.
A Siviglia c’era un centro sociale i quali muri venivano imbiancati ogni 3 mesi per dare modo ai writers di fare i loro murales. Ora credo sia chiuso… :(