Guardare un film di Sergio Leone è come mettersi di fronte ad un’epopea che ti incolla allo schermo. Ma al di là dei risaputi pregi tecnici e stilistici delle pellicole dell’inventore dello Spaghetti western, è della valenza impegnata ed eversiva che voglio parlare. Per chi non lo sapesse, dopo i successi degli anni ’60, che hanno lanciato Clint Eastwood e rinvigorito un genere ormai appassito, nel 1971 esce nelle sale quello che il regista voleva che fosse il suo ultimo western prima di dedicarsi ad altri generi: Giù la testa!
In Italia, la stagione dell’amore e delle contestazioni politico-studentesche ha lasciato degli strascichi pesanti ed un livello di tensione molto alto tra le fazioni politiche, inaugurando gli anni di piombo. Chiunque all’epoca avesse 20-30 anni ricorda e racconta come quelli fossero i tempi delle ideologie forti, di un impegno politico appassionato come non mai, di gesti reazionari e mai banali, di come le arti e l’impegno andassero di pari passo e che, quando non era così, si cadeva nella contestazione più aspra, perché gli anni ’70 non potevano e non dovevano essere anni di leggerezza.
Che il genere western fosse inizialmente di intrattenimento poi, è chiaro. Ricordo mio padre che da piccolo mi citava continuamente suo padre e la passione sfrenata per i film di John Wayne, quando una generazione di ragazzi e adulti non andava ancora al cinema, ma condivideva lo schermo di una tv in bianco e nero, attorno alla quale ci si appollaiava con le sedie di legno.
Ma l’avventura oltre ad essere intrattenimento è anche Storia, finzione scenica di una guerra ad esempio, di usi e costumi di un popolo. Sergio Leone fa dei suoi western una riflessione sul genere e una sulla vita. I primi piani, presi direttamente dai film di Akira Kurosawa, testimoniano l’interiorità di eroi per caso e non eroi, di individui polverosi e sudati fuori, ma dentro profondamente in conflitto con se stessi e col mondo che li ha costretti ad usare la violenza per uscire dalla miseria. Ed è proprio Giù la testa! che, attraverso una metafora continua fatta di dinamite ed esplosioni, tira fuori un quadro della situazione di quegli anni ’70 italiani che dalla strage di Piazza Fontana non hanno più visto una tregua.
In Italia si sta combattendo una vera e propria guerra civile e gli attentati sono all’ordine del giorno in tutta la penisola: fascisti, Brigate rosse, estremismi extraparlamentari ovunque, perché il Parlamento non è altro che la feccia, la presa in giro di tutti i bei discorsi sulla rappresentanza democratica dettata dalla Costituzione. Il film di Leone ci parla invece della rivoluzione a Mesa Verde, del Messico e del regime dittatoriale dei primi del ‘900. Non a caso la pellicola inizia con la citazione di Mao Tse-tung, che testimonia l’obbligata lettura di un decennio, e che sarebbe stata prontamente gettata nel fango negli anni ’80, quando ci si accorgerà dell’illusione dell’utopia comunista cinese. Quindi, il film ci parla di come combattere un regime, dei pro e dei contro di una rivoluzione; del fatto che ci sarà sempre chi leggerà i libri, e teorizzerà un golpe nella piacevolezza di una poltrona e chi andrà a combattere rischiando la pelle.
In tutto ciò si snoda il problema dell’esistenza e del nostro ruolo nel mondo: può una rivoluzione essere veramente giusta e considerarsi tale per tutto il corso della sua azione? Può davvero rispettare i suoi ideali iniziali di libertà per tutti e soprattutto per i più deboli?
Sergio Leone darà la propria e personale risposta con questo film.
Qui possiamo dire che, da che mondo è mondo, la pace è stata sempre interrotta dalla guerra e questa da un’altra pace. Una banalità che si fonda da sempre sul consenso. Una banalità che ancora non viene rispettata che, di tanto in tanto, viene ricostituita (temporaneamente) per/con la rabbia dilagante del popolo.
Per zittirla un poco.
Giù la testa, appunto!