di Fabio Campoccia
Guardai la “lista” e rimasi di sasso, inebetito. Mi servì un intero minuto per riprendermi.
La Lista, era quella con la l maiuscola, e decine di omuncoli speranzosi la stavano guardando assieme a me. Era stata da poco affissa in quell’ufficio. Ed era stata attesa con ansia per tutta la giornata da una lunghissima fila di giovani e meno giovani che nervosamente sostava davanti le porte dell’edificio.
In quella Lista io c’ero. Sembrava un miracolo. E forse lo era, considerando quante ore di preghiera erano state consumate dalla mia numerosa famiglia in suffragio di quella Lista. Io in quella Lista c’ero. Forse era un miracolo, forse era fortuna, forse ero stato più bravo degli altri. In tutti i casi era una splendida notizia. Ero uno degli ultimi due candidati selezionati ancora in lizza per vincere il “concorso”!
Il concorso era indetto ogni dieci anni dalla Carter&Carter S.p.A. per reclutare un nuovo lavoratore a progetto per il servizio di call center del proprio customer service. Lo stipendio ammontava a 500 euro lordi al mese, per 12 ore di lavoro, con 5 minuti di pausa ogni 4 ore. Praticamente una pacchia! Altro che i lavori delle altre compagnie che ti sfruttano come un limone marcio… La Carter&Carter trattava i lavoratori come esseri umani. Era bello lavorare per loro.
Si erano presentati 53.000 candidati e dopo le prime quattro prove selettive eravamo rimasti solo in due: io e tale Linda Bellotempo che non conoscevo.
Non potevo crederci. Ero sulla lista. Ero stato ammesso alla quinta ed ultima prova. Potevo davvero farcela. Potevo avere un contratto a tempo determinato con la Carter&Carter: un sogno che si realizzava!
In fondo non era stato così difficile. I criteri di ammissione al concorso erano:
1- Almeno due lauree prese col massimo dei voti.
2- Almeno un dottorato per laurea (ma io ne avevo addirittura tre).
3- L’ottima padronanza di almeno quattro lingue (due europee e due asiatiche). Io parlavo inglese, spagnolo, tedesco, russo, arabo e cinese.
4- Almeno 500 ore di lavoro non retribuito alla Carter&Carter.
5- Un certificato di sana e perfetta costituzione. E c’erano voluti tre mesi di checkup prima che il medico dell’azienda fosse soddisfatto. Certo nessuno ci teneva ad assumere un dipendente a cui cede il cuore al primo momento di stress.
6- Il pagamento di 10 mila euro, ovviamente a fondo perduto, alla Carter&Carter.
7- Ed infine la fiduciosa presentazione e raccomandazione di un alto prelato a mezzo lettera firmata.
Lo so: quisquilie! Ormai tutti i giovani in cerca di lavoro hanno quei requisiti. Chi non li ha neanche ci prova a cercare un impiego. Figuriamoci!
Poi erano cominciate le prove.
– La prima prova era stata un quiz a risposte multiple di cultura generale: 200 domande in 15 minuti. Io avevo sbagliato solo quella sulla trentacinquesima cifra decimale della costante di Planck. Come aveva fatto a passarmi di mente? Ma per fortuna avevo azzeccato tutte le altre risposte.
– La seconda prova era stata un tema a risposta aperta di 10 righe su un argomento qualunque estratto casualmente da Google. Anche quello non mi diede nessun problema, avevo navigato davvero tanto su Google e conoscevo la maggior parte dei contenuti.
– La terza prova era stata una batteria di 100 domande relative a notizie anagrafiche sui dipendenti della Carter&Carter a cui bisognava rispondere oralmente usando la respirazione circolare. La respirazione circolare è un altro requisito per lavorare nei call center della Carter&Carter. Devi parlare senza fare mai una pausa per respirare, emetti il fiato con la bocca e lo prendi col naso, contemporaneamente. Sciocchezze!
– La quarta prova era stata un test psico-attitudinale. Ti mettono davanti ad uno psicologo che sta zitto. Tu devi rispondere alla domanda che sta pensando. E devi rispondere correttamente alla domanda ma anche in modo attitudinalmente valido. Se no sei fuori!
Io avevo totalizzato punteggi elevati in tutte le prove ed ora mi attendeva l’ultima.
Mi trovai davanti l’altra candidata: Linda Bellotempo, il mio nemico, l’ultimo ostacolo, lo scoglio da superare. Avrei dovuto fare meglio di lei, prendere un punteggio migliore. Anzi sbaragliarla, umiliarla, ridurla alle lacrime, ed il posto sarebbe stato mio! Era una ragazzina, avrà avuto qualche anno meno di me. Era di statura minuta e fragile, capelli rossi, pelle chiara e grandi occhi azzurri circondati da un accenno di lentiggini. Sapete il tipo di donna che alla prima difficoltà si rifugia in lacrime tra le braccia di un uomo? Certo, una che ispira frasi d’amore, abbracci teneri e sguardi romantici ma non aveva certo lo spessore per quel posto. Era ovvio. Sarebbe crollata subito. Sarebbe stata una passeggiata batterla. In fondo in fondo non mi stava neanche antipatica, aveva un bel sorriso, ma prima della fine della giornata avrebbe smesso di sorridere. Ve lo garantisco.
Iniziò l’ultima prova. Si trattava di una simulazione di call center. Dalla casa di riposo della Carter&Carter erano stati selezionati 40 anziani tra quelli affetti da demenza senile. Gli avevano messo davanti un telefono in chiamata verso il nostro call center. Avremmo dovuto rispondere alle loro chiamate, riuscire a capire cosa volevano, dare loro le informazioni e chiudere la comunicazione nel più breve tempo possibile. Non appena una chiamata fosse finita, dal centralino sarebbe arrivata la successiva. Chi rispondeva a più chiamate avrebbe avuto il posto. Semplice!
Cominciarono ad arrivare le chiamate. Io risposi e chiusi facilmente quelle che mi arrivavano. Mi sentivo abbastanza sicuro di me stesso.
La cosa successe alla decima chiamata. Eravamo pari. Avevamo risposto a cinque chiamate ciascuno. Alla fine di una chiamata l’occhio mi cadde distrattamente su Linda e lei mi sorrise complice. Era ovvio che la pivella non si rendeva conto che eravamo in competizione e certamente non complici né amici. Tuttavia forse per un riflesso incondizionato le sorrisi anch’io. Il suo sorriso però mi fece stare bene.
La chiamata successiva la chiusi prima di lei e guardandola stavolta le sorrisi io per sottolineare sarcasticamente il mio vantaggio. Lei non capì, anzi rise di gusto e mi rispose complice con un’espressione ironica come a dire: “Questi sono tutti matti”. E mi strizzò l’occhio. Però… era carina! Mi dispiaceva sbatterla via dal concorso, ma non avevo scelta. Mi distrassi un attimo su quel pensiero e Linda recuperò lo svantaggio.
Idiota! Non dovevo distrarmi! Mi concentrai sulla chiamata e sul tizio ultraottantenne che pretendeva una tariffa inesistente, riuscii a dirottarlo su Internet e chiusi in fretta la comunicazione. Linda mi sorrise di nuovo. Sembrava che non le importasse del punteggio.
Alla trentesima chiamata eravamo ancora pari. Mancavano solo dieci chiamate, dovevo accelerare. Cercai di non guardarla, ma ad un certo punto vidi che muovendosi maldestramente aveva staccato il cavo del suo auricolare dal centralino. Sembrò rimanerci male, guardò il centralino con aria confusa e fece un broncetto con le labbra che mi fece sorridere. Poverina, era davvero carina, magari un po’ imbranata, ma carina. Allungai la mano e le reinserii il cavo, strizzandole l’occhio. Mi sorrise raggiante e mi mandò un bacio. Sentii il cuore che mi si riscaldava. E in quel momento dentro di me successe qualcosa. Improvvisamente capii tutto!
Non era un caso che io e Linda fossimo arrivati all’ultima prova assieme. C’era qualcosa che silenziosamente ci stava unendo. Ebbi quasi una visione: io che dopo il concorso l’invito a cena, poi fare l’amore in riva al mare e sposarsi in pochi mesi. Quella donna era il mio destino. Questa verità mi apparve davanti agli occhi come un’illuminazione. Forse non aveva importanza chi vinceva il concorso, tanto saremmo stati assieme e il lavoro era comunque nostro. Ecco, forse era proprio per questo che eravamo arrivati all’ultima prova insieme: per incontrarci e innamorarci. Ed il resto era già tutto scritto nel misterioso libro del destino degli uomini.
Mentre riflettevo su questo, risposi alla quarantesima chiamata. Eravamo ancora pari. Chi avesse chiuso per primo avrebbe vinto.
Fu in quel momento che ci guardammo. Capii che anche lei aveva capito. Eravamo destinati a stare assieme, ormai il lavoro era nostro. Quella competizione non aveva più senso. Come se ci fossimo accordati facemmo silenzio, contemporaneamente, guardandoci, mentre i due anziani al telefono continuavano a chiedere informazioni istericamente. Facemmo silenzio e ci guardammo ancora, sorridendoci con un cenno di intesa. Poi le presi la mano, e gliela strinsi. Lei mi sorrise, arrossendo timidamente le sue gote da bambina. Rimanemmo un po’ in silenzio mentre le ultime due chiamate di quel folle concorso erano ancora attive. Poi alla fine lei mi guardò raggiante e disse all’auricolare:
“Signore, la ringrazio per aver chiamato” e chiuse il telefono sbattendolo. Il suo sorriso si trasformò in una risata volgare e mi urlò in faccia: “Ti ho fottuto testa di cazzo!! Sei fuori!”.
Si alzò dalla postazione e uscì dall’ufficio ancora ridendo sguaiatamente. Io rimasi di ghiaccio, ancora con l’auricolare nelle orecchie ed un vecchio che mi urlava di rispondergli.
Che donna! Se non fossi da pochi secondi entrato nello status di disoccupato me ne sarei innamorato all’istante. E l’avrei invitata a cena. Ma a questo punto non avevo una lira. Mi aveva giocato. Ed io c’ero caduto.
Chiusi la chiamata. Avevo perso quello splendido lavoro. Avevo fallito. Mi veniva quasi da piangere. Cosa avrei fatto adesso? Purtroppo, per quanto terribile, l’alternativa era una sola. E a questo punto non avevo scelta. Sarei stato costretto ad andare a lavorare al bar di mio zio a Tenerife. Certo, avrei lavorato poche ore al giorno, sul mare, circondato da turiste, e naturalmente avrei guadagnato molti più soldi. Ma vuoi mettere aver perso un lavoro così pieno di prospettive nella Grande Città? Che cavolo!
Affanculo il lavoro!