– Tratto da “Tutta colpa della maestra” –
Dietro la maschera è facile osservare senza che nessuno noti dove si posa il tuo sguardo. In ogni caso, sono impegnati a guardare altro. Hanno ballato, sudato, stirato le loro facce avvelenate dal botulino in larghi sorrisi per gli obiettivi dei fotografi e adesso arriva la specialità della casa, la pietanza che tutti aspettavano: tutti, in fondo, sono qui per questo – altro che brunch, happy hour, disco, privé, qua siamo ad alti livelli, e infatti c’è solo gente che conta davvero, lo vedi in questi due proprio davanti a me con i jeans stretti nello sfoggio di una virilità riscoperta a cinquant’anni sotto la giacca elegante e la camicia, hanno barbe studiatamente incolte, capelli immobili per la cera, sorrisi grandi e affannati, uno perfino una sciarpetta blu da dirigente aziendale al pascolo notturno; lo vedi dagli orologi che portano ai polsi, lo capisci se sai quanto gli è costato il pacchetto, con la novità esotica che entra su una portantina dorata, la moda del momento, io.
Ho mandato due foto, una in primo piano e una in costume – si richiede bell’aspetto e serietà – e m’hanno detto che ero perfetta, non solo magra alta ben proporzionata, ma nemmeno nessun segno sul corpo, che sia neo, voglia o cicatrice. Prima di ogni servizio, mi vado a fare una ceretta completa, poi loro mi dovrebbero disinfettare, ma non lo fanno – sono contenta che nemmeno mi raffreddino il corpo in qualche modo, come ho sentito che è successo in altri locali ad alcune ragazze. È così che sono diventata un vassoio.
Mi introducono quattro ragazze bionde e bianchicce, belle ma non quanto me, vestite di imitazioni dorate di kimono giapponesi: le unghie ricostruite gli intralciano la presa, braccialetti di perle finte pendono dai polsi, grossi anelli spiccano sulle dita, il trucco scuro contrasta con l’abbigliamento in accordo cromatico col nome della serata: Golden Night. Anche le mie gambe sono state ricoperte di una crema color oro, e i clienti non se ne accorgono oppure non li sfiora nemmeno il pensiero che possa essere antigienico. Le ragazze hanno acceso quattro candele pirotecniche agli angoli della lettiga, mi posano al centro della sala e tutti gli occhi sono su di me, anche quelli di due macchine fotografiche e una telecamera, mentre le scintille pian piano si spengono sfrigolando e gli invitati alla festa hanno smesso le loro espressioni gioviali per delle facce serie e stupite: guardano il mio corpo ricoperto da foglie dorate sui capezzoli e sul sottilissimo tanga color carne ma soprattutto da una varietà di sushi accompagnato a tempura, in una coreografia ideata dallo chef. Poi, lentamente, cominciano a avvicinarsi, le prime sono due donne sulla quarantina che afferrano due paia di bacchette dalle mani di una delle ragazze pronte al mio fianco e aspettano che la telecamera smetta di riprendermi da sotto in su per incominciare. Le vedo ridacchiare e parlarsi all’orecchio mentre guardano in basso, eccitatissime, più degli uomini che non vedo più, nelle prime file solo una folla femminile. Quando il cameraman finisce, una di loro, carré rosso e top leopardato, prende un nigiri da qualche parte vicino al mio ombelico, l’altra, frangetta, occhialini dalla montatura metallica, vestitino color nero mortificante a collo alto, si fa coraggio e prende anche lei un hosomaki guardandomi come a chiedere permesso, mentre la rossa sta già gustando il pesce (la bocca si stringe rivelando rughe a codice a barre), poi entrambe rimangono per un attimo a guardarmi, ma si deve fare spazio, si stanno accalcando altre donne incoraggiate dalle prime, e tutte mangiano dal mio corpo, sgomitando, scegliendo il loro pezzo preferito, ridendo, inondandomi del loro fiato alcolico; so che dietro di loro gli uomini mi stanno scrutando nei minimi particolari e aspettano il loro turno. Uno dei due manager che avevo notato prima, faccia gialla e capelli grigi, si avvicina mentre una bionda sta imboccando una sua amica: guarda loro, guarda me, alza due dita in segno di vittoria verso il fotografo che non smette di scattare, lo raggiunge il suo compare con la sciarpetta, entrambi fanno smorfie all’obiettivo e poi si servono. Alla fine arriva un ragazzo che mi guarda da un angolo fin dall’inizio, cercando di non eccitarsi. Dopo aver preso da mangiare, rimane vicino a me mentre le persone sfilano, si serve ancora, non mi stacca gli occhi di dosso. Probabilmente non è ancora riuscito a dimenticare che sono una donna, forse crede di sentire la temperatura della mia pelle, il calore che guasta il pesce crudo mettendoli tutti a rischio salmonella, ma lui a questo non pensa, lui osserva le mie costole che emergono quando arcuo la schiena per mettermi a favore di fotocamera, forse l’ebbrezza che aleggia nell’aria non gli impedisce di ricordare che sotto la mia pelle scorre sangue come succedeva nelle stesse venature del salmone che adesso mi fa da indumento, forse vorrebbe parlarmi ma sa che non può.
Non mi si può nemmeno toccare, e l’unico modo per prendere il sushi sono le bacchette. Noi del mestiere, m’aveva detto il proprietario del locale, dobbiamo saper stare al gioco, sapere sempre cosa vuole il cliente, e loro adesso vogliono il body sushi, un’antica pratica giapponese tra il rituale e l’artistico, e tu avrai il privilegio di essere l’opera d’arte, tutelata dalle nostre semplici regole. Però, mentre la festa va avanti e io comincio a sentire freddo e gli altri si scaldano bevendo, ballando, applaudendo uno spettacolo di danza e poi uno spogliarello, la gente prende a ridere più forte, le ragazze col kimono si strusciano addosso ad uomini di età diverse, qualcuno barcolla verso di me e mi rivolge la parola, io non rispondo, come so che devo fare, ma gli è presa voglia di scherzare, una ragazza mangia direttamente dal mio petto. Tutti la ammirano come fosse qualcosa di molto sensuale, e invece mi fa schifo, sento il suo alito e la bava che mi lascia attaccata mentre ingolla riso e ne lascia cadere un po’ su di me, poi penso ai 200 euro che prenderò stasera e continuo a sorridere.
di Valeria Balistreri
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