“Effetto Domino” – P.

Entra nell’aula 1 e si siede con gli altri dietro la cattedra.
Penso naturalmente che sia un prof.; atipico, certo, visto che non ha modi sicuri, ma osserva tutto e anche quando si siede accanto a me e non toglie il giubbotto continuo a pensare che farà il suo intervento dopo la pausa. D’altronde è ben vestito, e questo basta.
A un certo punto una serie casuale di frasi mi fanno capire che forse della lezione di dipendenze patologiche non ho capito un cazzo, e mi vergogno, molto.
Lui osserva con quella faccia l’assistente sociale che parla non semplicemente perché è una collega per cui ha ammirazione. Osserva l’assistente sociale che mi permette di pensare che lui sia un operatore per la disinvoltura con cui gli parla e la guarda per quello che è: una delle sue “salvatrici”. Arrossisco. Dubbi.
Dopo la pausa lui tiene il suo intervento, ed è un video, o meglio, il résumé della vita; la sua. Il compito è terapeutico: lui è l’utente di un Ser.T. (sapete cosa sono i Ser.T. ormai, vero?), è un tossico o, bene che vada, un ex tossico.

L’eroina era la sua Eroina. Il video è la sua medicina. E non c’è masochismo in questo. Il punto è: “METTERE A FUOCO”: l’obiettivo della macchina fotografica in un progetto da 200mila euro approvato dal Comune per i tossici ci porta Paolo a lezione, ben vestito nelle tonalità del beige e del marrone e della sua libera scelta con le palle di venirsi a spogliare dalla vergogna, con occhi resi grandi dalla magrezza camuffata dal giubbotto che non toglie e dagli occhiali a fondo di bottiglia ma con la montatura sottile-metallico. Nessuna classica sciorinatura di storie, nessun preludio “ah io mi bucavo di qua, ah io mi bucavo di là, nessuno mi capiva, i miei genitori, il quartiere, i miei figli, ho bisogno di aiuto, il metadone”. Niente, ci attacchiamo al tram, siamo sbattuti dentro 50 fotografie che mostrano un bambino-un ragazzo-un uomo-delle donne-bambine-una sola siringa. Guardo la siringa nella carne, e mi torna in mente io da piccola, terrorizzata dalle iniezioni, attaccata ai piedi del letto con tre persone che tentano di tirarmi mentre mi si staccano le calze e le scarpe da tennis e i pantaloni fucsia di Snoopy, ma io non vengo fuori. La polvere sulla faccia, i palettoni serrati, mutandone coi bordini gialli e rigetto delle “punture” nonostante tonsille di otto centimetri cubi. Mio zio che mi prende a boffe il culo per anestetizzarlo ancor prima dell’alcool e i miei lacrimoni isterici mentre mordo il piumone blu. Penso che ancora oggi gli aghi mi provocano crisi d’ansia e valium endovena. …Paolo non aveva paura invece. Perché?

Capire è una boffa in faccia, ogni foto è una boffa, una timpulata di quelle a manrovescio, direbbe mio padre. Ogni foto ha un led culturale che lampeggia sulla mia testa: vizioso-vizioso-vizioso-siringa-paura-paura-ladrodelinquentemalato-chirurgia plastica-altra boffa; le emozioni non si sciolgono, inizio a sentire un dolore sordo alla spalla, dalla spalla come in un contagio infettivo al petto, dal petto all’altra spalla, poi stomaco, virus, basso ventre, bagno, poi si ferma.
Il video prosegue: “La calma…????? Non è nel mio DNA.” Questa scritta piena di punti interrogativi scolorisce tra un fotogramma e l’altro, tra un’EPATITE-OVERDOSE-AIDS e l’altra.
MANROVESCIO.
[…] La morbosità di succhiare le storie degli altri nel cortile della chiacchiera è segata come le gambe dei paralitici, solo che questa non è una malattia.
Succede il prevedibile, le emozioni sono forti, le nostre parti tossiche hanno paura, fuggono a gambe levate, le nostre parti-madri vogliono abbracciarlo come crocerossine e ringraziarlo di essere qui. Ma il silenzio è sacro.
[…] L’aria si potrebbe mettere dentro l’affettatrice, e subito le uniche parole che sentiamo sono le lacrime, le sue, composte. Paolo è un uomo sui 40-50 che piange pianissimo dietro le lenti spesse, e solo per due secondi smette di parlare. Accetta il microfono per farci sentire meglio, si tampona l’acqua sugli occhi con le dita nodose che ha e poi le asciuga con discrezione sui pantaloni, che si aggiusta continuamente per non restare disordinato.
Noi non capiamo un cazzo di quel mondo, capiamo solo quello che lui ci porta gettandocelo negli occhi e dentro le orecchie con cose come “A Palermo era facile; era tutto basato sul distruggere la nostra generazione. Sono tutti deceduti”. “Spero che voi siate forti”. Le orecchie stappate di fronte all’uomo che si sveglia, al calore di un padre che ti sputa tra le righe con dignità che lui ha l’AIDS, che lui si è guardato in faccia, si è fotografato dentro la merda, con la puzza della terra bruciata intorno, e ora è là con la faccia scura rigata perché “ci sono i miei figli davanti, per me è importante… è IMPORTANTE”.
Mi chiedo angosciata se sono sieropositive le sue bambine bionde, ma non riesco a vederlo come un farabutto. Non c’è nessuna malato di fronte alle nostre facce traumatizzate. Nessuna presentazione in pompa magna dell’eroinomane che sta crepando prosciugato dal suo passato viscido, dalla punizione della malattia presente, dalla trasmissione al mondo del suo morbo schifoso. Nessuna elemosina, inoltre.
C’è un tizio qualunque di quelli che incroci per strada, davanti a noi insieme a tutte le sue siringhe, ai suoi test dell’HIV e dell’Epatite, alle sue figlie e alle sue storie di vite e di stronzate. C’è una possibilità di umanità discreta e sfacciata in carne e ossa. E c’è uno schiaffo alle solite immagini televisive: il suo video versus quelle stronze pubblicità regresso degli anni ’90 con i tossici in viola che si bucano e poi immischiano l’AIZ (così si pronuncia) al mondo scopicchiando di qua e di là. …Ma la realtà non è così televisiva; lui lo dice con pudore: “Noi non siamo abituati a toccarci”. Non aggiunge altro, è intuibile perché.

Da brava crocerossina, io quello che volevo era dargli la mano, e l’ho fatto, contenta di averlo pensato per più di un’ora come un prof., di non essermi fatta domande sulla pelle emaciata e sulle guance scavate.
Sono meno contenta di aver inconsciamente escluso che un tossico malato di AIDS e non so di cos’altro potesse vestirsi bene.
Scusami, Paolo.
Sono le ideologie che ci fottono.

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