Questo è un pezzo del mio diario, un resoconto del primo sciopero dei call center. Lo pubblico non per quelli che c’erano, ma per quelli che decisero di non venire. Lo pubblico per sensibilizzare tutti quelli che, al momento, mi dicono: “Io il 21 non verrò, non ci credo più…”
– 5 Giugno ore 6.15 –
Mentre accompagno Giovanni a casa, nella storica Bagheria, tra una buca e l’altra, sorge il sole, il secondo da quando sono partito. Questo significa che sono stato fuori quasi 48 ore e che tornando a casa troverò ancora tutta la famiglia con la testa sul cuscino.
Finalmente anch’io potrò dormire.
Mi sento come quando da militare di leva si facevano i Campi e si passavano ore in mezzo al fango o sotto il sole cocente montando tende e sparando proiettili calibro 7,65.
Mi sento stanco ed elettrizzato allo stesso tempo.
Rivedo la faccia di Gioacchino che guarda il Vesuvio, quella di Fabio che scatta foto e fa il “saluto” agli altri pullman, rivedo Sonia, Luigi e Marco mentre cercano di dare una stirata alla faccia stropicciata dal viaggio di andata nel bagno di un bar romano.
Solo 13 ore, che saranno mai… un aperitivo, una cena, una notte bianca ed una sveglia presto con, al posto del gallo, le ruote del pullman che fischiano e prendono l’ennesima buca.
Roma è bella, lo è sempre stata e sempre lo sarà.
Esserci con Gioacchino, Mario, Massimo, Fabio, Fabiola, Giovanni, Sonia, Claudio, Luigi è tutt’altra cosa. È strano.
È strano perché di solito ci si becca alla macchinetta del caffè, in postazione, e magari sei lì che vuoi scambiare quattro chiacchiere, chiedere semplicemente come stai e non puoi per l’arrivo dell’ennesima chiamata.
Oggi con i miei colleghi andiamo a fare colazione al bar, un piccolo bar, niente di che, giusto per sistemarci, prendere un caffè, lavarci la faccia, i denti… Non ci sono trucchi e quel poco che le ragazze si ostinano a darsi è già scivolato in nottata tra il finestrino e la spalla di un amico.
Abbiamo un po’ di tempo per arricchirci ancora di più, e anche se i piedi sono gonfi e le spalle indolenzite si va avanti verso una piazza, verso la storia: Fori Imperiali.
Tra un po’ queste vie saranno piene di uomini e donne, ragazze e ragazzi, madri e padri di famiglia. Marceranno insieme per dire no alla delocalizzazione, per dire no, ancora una volta, all’eterno ricatto che viene dall’estero ma per mano di mandanti tutti italiani.
Io sono stanco, ci sono le scale, Gioacchino mi parla di quant’è bella Roma, ma io ho bisogno di un caffè… Con Sonia scambiamo quattro chiacchiere sul mio libro e l’ebook che la casa editrice mi ha detto pubblicherà proprio il 4 giugno.
Ci credo tanto in questo sciopero, ci credo perché altrimenti non avrebbe avuto senso aver lasciato a casa mia moglie con le mie due bambine. Non avrebbe avuto senso dire a mia figlia: «Sto andando a lavoro, ma mancherò un po’ di più». Non avrebbe avuto senso scriverci un libro e presentare al mondo intero tutta la mia e la nostra storia.
Ho ancora sullo stomaco il cornetto delle 3 e mezza, condito dalle risate di Giuseppe e di tutti gli amici con cui scambiavo solo poche parole.
Questo sciopero mi ha arricchito, mi ha dato modo di vedermi sotto un’altra luce, di vedere diversamente anche alcune persone di cui non avevo che piccoli sprazzi di voce, tra una chiamata e l’altra.
In verità un po’ di sconforto l’ho avuto, all’inizio in piazza non è che mi aspettassi tutte queste persone… e dire che eravamo la testa del corteo. Ed invece eccoci lì in più di 7000, tra chi come me è arrivato in uno dei 50 pullman e chi invece ha preferito l’aereo o il treno… Si marcia, si va avanti, le bandiere sono alte e il cielo si colora di mille colori con un solo obiettivo: far capire che esistiamo, che non siamo invisibili, che siamo persone oltre che voci.
Il tragitto è lungo e la bella giornata di sole ci mette del suo a buttarmi ancora giù.
Incontro tanta gente che mi riconosce, facce che ho visto solo su facebook e con cui magari ho stretto anche amicizia, mi piace. Telecamere, microfoni… ancora Fori Imperiali, stavolta stracolmi con i tricolori sbandierati al cielo.
Sto per svenire ma è solo un attimo, mi fermo, un po’ d’acqua e via… verso il palco, verso il palco per il comizio, crediamoci.
Penso a stasera, al viaggio di ritorno, alla maglietta che puzza, ai sedili stretti, alla testa che sbatte sul finestrino, agli ammortizzatori che il mio corpo trova per farmi dormire.
Risento la birra Messina bevuta la notte nel traghetto con Claudio, Luigi, Gioacchino, Marco e Sonia, a braccia aperte, con il fresco della notte, gli occhi semi-chiusi ed il panino mangiato in pieno silenzio in mezzo al Mediterraneo.
Sono fortunato, siamo fortunati… mi ripeto, possiamo ancora manifestare, possiamo ancora dire: “Noi Siamo Qui”…
C’è una collega che grida, che urla che “No, noi non vogliamo essere utili a nessuno”, che per una volta, una sola volta, dev’essere lo Stato, quello in cui crediamo, con la S maiuscola, a dirci: «Faremo tutto il possibile, fermeremo la delocalizzazione, le gare al massimo ribasso…».
A comizio finito, con il sudore che si mischia alle lacrime di commozione si fa appena in tempo ad ammainare le bandiere che la fame, la stanchezza, il sonno prepotente ed un pizzico di rabbia presentano il conto. Le facce sono tutte uguali, manca solo la scritta 4 giugno.
Si cerca un posto economico dove fare il primo pasto caldo dopo 24 ore seduti, possibilmente, ad un tavolo. Troviamo un bar che fa anche pasta espressa… e a Roma che puoi prendere? Matriciana per tutti.
Tornando a lavoro me li ritroverò tra un pannello verde e l’altro e non sarà lo stesso, lo so, lo sappiamo tutti in verità.
Ma voglio anche tornare da mia figlia e darle una risposta, spiegarle che il turno è durato così tanto solo perché era una giornata importante, anche e soprattutto per lei.
Voglio riabbracciare le mie figlie, litigare con mia moglie e chiudere gli occhi.
Questo mi ripeto mentre saluto Giovanni che va dalla piccola di 6 mesi.
Ancora pochi chilomentri, i passi, le chiavi, il letto, il cuscino, mia figlia ed un bacio…
Io c’ero, io c’er… io c…
Ed io continuerò a dire c’ero anch’io e ci sarò, anzi ci saremo anche il 21 novembre e ci saremo sempre a difendere il nostro lavoro
Dire no alla localizzazione sembra una battaglia persa in partenza. Lo sembra tutte le volte che un cliente mi chiama e mi urla contro perché non ne può più di parlare con stranieri che hanno difficoltà a capirlo e a farsi capire, come se io fossi in qualche modo responsabile o felice di questa situazione. La verità è che non se ne parla abbastanza, e che chi è al di fuori del mondo dei call center ha un’immagine del tutto distorta e irreale di quella che è la reale situazione di questi lavoratori. Ancora si ha l’immagine dello studentello che indossa le cuffie tra un esame all’altro e si ignorano le migliaia di famiglie che vivono grazie a questo lavoro. Bravo Marco perché non perdi occasione per diffondere questa battaglia
grande sonia