Eccomi qua, sempre nello stesso posto da tre giorni. Puzzo, Dio come puzzo!
Sono nato sette giorni fa. Quelli come me dopo tre giorni emanano un feto di morte, ma solitamente hanno vita breve. Certo, se fossi nato a Firenze o a Bologna forse… ma ebbi l’infausta fortuna di nascere a Palermo e ad agosto per giunta.
Sapete che significa questo? Che non mi fanno morire: mi aprono e mi riempiono di resti di cibo andato a male, scocce di banana, uova marce, cartoni del latte. Questi esseri mi vivono dentro e si accoppiano fra loro: la carne del giovedì col pesce del venerdì, le uova del lunedì coi rimasugli della benedettissima pasta cu furnu della domenica.
Poi, pieno e sfinito, coi succhi dei cibi andati a male che mi colano dappertutto, attendo la morte. Ma prima bisogna chiudermi… un supplizio! Nessuno vuole avere questa incombenza e tutti giocano a rimpiattino: “Io l’ho fatto la scorsa settimana”, “Non posso, ho l’influenza”, “Che schifo, io non lo tocco!”.
Umiliato e vessato in attesa che qualcuno metta fine alla mia esistenza da pattumiera.
Il resto è ancora peggio… È agosto, il sole squaglia l’asfalto, tutti camminano come zombie, grondanti sudore, uccisi dalla canicola.
In questo stato di torpore apocalittico, post pranzo, finalmente vengo gettato. Attendo pazientemente il camion con gli amici dell’Amia o Rap o chissenefregailnome. Spero giunga presto la mia ora, la fine gloriosa di un sacchetto della spazzatura o, come mi chiamano qui, ra munnizza.
Passano le ore, siamo sempre di più, ammassati e instupiditi dalla calura e dal tanfo, imprigionati fra lamiere roventi. Nessuno all’orizzonte. Arrivano altri di noi, alcuni malamente gettati dai finestrini da gente con occhiali da sole e costume da bagno: non c’è tempo di scendere, la musica a palla sbiadisce all’orizzonte.
La puzza è sempre più forte, la gente ci sta lontana disgustata.
«Vi prego! Fate qualcosa, vogliamo morire!» gridano alcuni di noi.
Ad un tratto, nel trambusto di voci e di feto d’agghia assammarata nell’olio e aceto, si parte uno, un sacchetto blu dell’Eurospin, e ci apostrofa con fare un poco mafiosello:
«Siete delle minchie mise a gritta, chiddu vuoli muoriri, chidd’avutru senti cavuru, chistu cca avi tri pittusa e si lamienta. Taliati a mia!». A questo punto espone il petto, il sacchetto si gonfia tutto, ci mostra effluvi di cibo avariato, buchi dai quali fuoriescono scocci ri banana e altre schifezze non identificate. Il tanfo è insopportabile.
«Avi tri simani ca sugnu iccatu cca e mai un fiato, mutu aiu statu, e u sapiti picchì? Picchì chiossai fitemu e chiossai i cristiani si lamientano e chiossai ci sentu priu! Sissignore, priu!»
Ci guardiamo tutti alluccuti, ansiosi di saperne di più.
«Se! Accussì è! A iddi ci piaci inchiri sacchietti ri munnizza a muzzu come i cavoli a mazzu? Voiddiri, dda ffuora a tri ghuiorna su ammartucati e riciclati e ca mmeci ama muoriri r’anzianità! Cuinnutu iu si mi spuostu! Cca me stari a fietere, accussì s’insignanu!».
Finito di parlare, si sgonfia tutto e torna a essere un sacchetto come tanti, chiuso in un mutismo che non sente ragioni.
Dopo un attimo di smarrimento, i soliti ricominciano a lamentarsi più forte di prima:
«Un ma firu cchiu… nzocché ’sta cuosa ca sta culannu? Mi sento tuttu nsivatu, cuinnutu r’unfiarnu!»
«Picchì u viristi cca? A picca mi fazzu piezza piezza cu sti scuocci i ficurinnia. Buttana ra miseria!»
«A vuatri buana vi finiu… a mia m’attuccò u manciari ru attu!»
Le voci si spengono, il buio cala e all’orizzonte dei fari ecco i nostri salvatori.
Mentre finisco nell’autocompattatore mi sovviene un’ultima amara riflessione: come è dura la vita da munnizza! Preferirei rimanere un sacchetto vuoto, inerme, incapace di pensare. Ma capita che tu sia il sacchetto prescelto e allora ti tocca vivere; e se vivi a Palermo sai già che avrai una vita lunga ai margini delle strade, buttato per terra, assaltato, schifato da tutti e sventrato dai cani randagi.
Che vita è questa?
Che vita, se nasci a Palermo?
Se quei sacchetti potessero veramente parlare. . . Dovremmo pensare a una saga forse, in cui l’eroe è veramente il sacco nero dei rifiuti :p in cui gli oggetti, visto che sono veramente loro i nostri protagonisti, sono vivi, tra noi, e ci dicono di noi.
uhm… m’ispira la cosa…