Bestie!

Sono già stanco e il mio viaggio non è ancora a metà. Le calzature che indosso sono ormai logore al punto che percepisco il contatto col suolo ad ogni passo. Mi rincuora solamente sentire il profumo del mare, a cui non sono abituato; è il profumo delle mie speranze che mi fa stringere i denti per gli ultimi metri. Mio fratello prima di me ha fatto il lungo viaggio e da tempo manda delle lettere da lui dettate. Dice che lì dove si trova veniamo trattati come bestie, dicono che puzziamo, che proliferiamo in fretta, che infestiamo gli alloggi, che è meglio contenerci in quartieri ghetto degradati. Siamo trattati come bestie, sì, è vero, ma almeno se piantiamo il grano mangiamo pane bianco, se coltiviamo vite beviamo vino, se alleviamo animali mangiamo carne.

Una lieve brezza porta con sé il profumo delle alghe arenate a riva, questa si mischia al puzzo del mio sudore e nel frattempo io penso che sulla puzza hanno ragione, non riuscirei a smentire quei pregiudizi, non in questo momento. Da giorni cammino senza sosta, desidero un bel bagno e un pediluvio quasi quanto dormire su un vero letto; nel poco tempo che ho riposato ho sfruttato la mia valigia di cartone piena di speranza più che di vestiti.

Il sole è alto, dev’essere cominciata la seconda mezza giornata, sono in ritardo. Accelero il passo con le ultime forze rimaste, oltrepasso una siepe, come un muro. Eccomi arrivato, asciugandomi la fronte perlata di sudore scopro la testa e controllo con le dita, in un gesto impercettibile, di non aver perso la busta coi soldi nascosta sotto la fodera del mio cappello. C’è tutto. Tirando un sospiro di sollievo mi avvicino al baffuto uomo dalla cicatrice che scende dalla fronte sino al naso. È quello che mi ha descritto mio fratello nella lettera. Col cappello in mano faccio un gesto concordato, l’uomo fa un ghigno d’assenso e, controllato furtivamente il contenuto della busta, parla con un tipo: non mi fido, ma non ho scelta. L’uomo di mare mi fa segno di entrare sotto coperta. Non me lo lascio dire due volte. Sullo scivolo barcollo, un uomo ancora più scuro di me mi afferra il braccio e mi aiuta a rimanere in equilibrio.
Il tanfo è pazzesco, siamo tanti, troppi. Siamo davvero bestie. Riesco a ritagliarmi uno spazio per affacciarmi. Tra le grate da prigione scorgo altra gente che entra, spinge, arriva una famiglia in leggera corsa, in pochi secondi si raccoglie una piccola fila, ancora un attimo e sembra svanire.

Il viaggio è interminabile. Il mare inquietante, nauseante. Un misto di paura e speranza regna sottocoperta. Paura di morire, ma anche di trovare un nuovo mondo, a noi incompatibile, che non ci accetta. Vorrei sapere chi ha messo per primo il paletto ed esclamato all’altro “Questo terreno è mio!”. Com’è cominciato tutto questo? Non ci sarebbero neanche le guerre. Vorrei essere una rondine che viaggia in cerca del sole da parte a parte del mondo senza curarsi del confine che varca, ma solo della temperatura ideale. Andrei a cercar fortuna per un po’, poi tornerei dalla mia famiglia, a me piace la mia terra…

Non so per quanto ho dormito, sembrava impossibile, ma la stanchezza ha superato le condizioni avverse. Il sole sta tramontando, ma mi ero ripromesso di tenere un diario per raccontare ai miei figli com’è andata. Ho imparato da poco a scrivere qualche lettera, di risposta a mio fratello. Ma prima ho dovuto imparare a leggere, cominciando dalle insegne delle botteghe. In valigia trovo penna, inchiostro e carta. Timidamente comincio dalla seconda pagina, se dimenticherò qualcosa la metterò nella prima. Appunto poche parole, semplici, quelle che mi ricordo.

“Appunti di viaggio” scrivo in centro. Vedo che un altro, poco più in là, sta leggendo. Gli chiedo gentilmente di darmi una mano a scrivere e di tanto in tanto lo consulto. “ho 17 anni. sono un bracciante. mi chiamo Giovanni Di Maria. sono nato ha castrogiovanni. forse ci muorirò. i miei figghi però nasceranno in america che e uno stato libero che se uno e bravo addiventa presidente. mio figlio addiventa magari presidente di nuova iock”. Mi corregge per l’ennesima volta, taglio e riscrivo “di Nuova Yorck. che magari a lui non ci viene la pelle scura e secca come la mia. ora ci sembra che siamo bestie puzziamo parlano male di noi. un giorno però noi uomini saremo più meglio con noi stessi uomini. apriremo le nostre porte e saremo più accoglienti e ste fesserie del puzzo e delle bestie non le penseremo più”. “Ben detto!” accenna con la testa il mio compagno di scrittura che prosegue sussurrando: “Forse le cose fra qualche anno cambieranno, o forse no, comunque ci devi mettere la data qua sopra”. Provvedo immediatamente, mentre il sole mi regala gli ultimi secondi di luce.
“6 agosto 1880, in mare”

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