Presumo che tutto, che l’ansia stessa, sia nata con l’accumularsi di tutte le paure, ma anche delle cose represse, dei rospi ingoiati in anni di precarietà sociale: casa precaria, studi precari, lavori altrettanto precari. Anche l’amore, che volle comunque venirmi a cercare, era precario e finiva sempre allo stesso modo: per qualche mancanza mia o del mio stato sociale.
Così, una sera di agosto, tra la sabbia fine di Capaci mista all’evanescenza trasgressiva della mia adolescenza, pensai di morire. Sentivo battere il cuore così velocemente da pregare gli altri affinché mi accompagnassero al Pronto Soccorso: non ebbi alcun supporto, ed io stesso, immerso nella vergogna di chi chiede aiuto ma non vuole insistere per non sentirsi giudicato, cominciai a vagare, con l’ansia alla gola, per la statale, fino a quando un amico, forse il mio unico amico, non pensò bene di raggiungermi e accompagnarmi a casa.
Sentivo la bocca secca, il respiro affannoso e continuavo a ripetere: “Sto morendo, ho un infarto”. Anche con la testa sul cuscino continuavo a sentire battere il cuore velocemente, a rivedere gli sguardi fissi che avevo incrociato per il mio lungo cammino in quella serata di panico. Continuò così per molte ore (o forse minuti), fino a quando la lampadina che continuavo a fissare dal mio letto non si spense.
Da quel famoso giorno, da quella prima volta, presi l’abitudine di seguire le stesse strade; frequentare gli stessi negozi, camminare, addirittura, sullo stesso marciapiede. Tutto mi era così familiare.
Per giorni, settimane, non successe più nulla. Collegai quello stato ai vizi, alla vita sregolata, agli orari sballati. Poi, in una meravigliosa giornata di sole, dopo aver finito il mio turno di lavoro (precario), mi ritrovai in una piazza enorme, quasi sconosciuta, percorsa da migliaia di persone, piena di auto, smog, aliena al mio stato mentale. Chiusi gli occhi e mi accorsi di provare la stessa identica paura di chi sta per essere lanciato nel vuoto.
L’agorafobia, per chi non lo sapesse, è “la sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all’aperto, temendo di non riuscire a controllare la situazione che lo porta a desiderare una via di fuga immediata verso un luogo da lui reputato più sicuro” (Wikipedia). Ma al di là di questo, è una condizione che attiva dei meccanismi di difesa evitanti e, nei casi più gravi, invalidanti: salgo volentieri sulla torre Eiffel, ma trovarmi da solo in piazza S.Pietro, allo stadio, o in mezzo a tanta gente mi scatena vertigini, sudorazione, tachicardia e mi blocco da fare schifo, chiudendo gli occhi, respirando affannosamente: tipo scarafaggio che sa di essere stato scoperto.
Se sono in compagnia ce la faccio, ma rischio di stritolare mani e spezzare braccia per tutta la durata del disagio. Tutto ciò ha significato, per lungo tempo, l’attraversare una grande piazza disegnando virtualmente un rettangolo che seguisse il marciapiede. Il triangolo, tagliare la piazza, no, non lo potevo considerare, perché significava impazzire al solo pensiero.
Quanto alla mia compagna, beh, la cosa è un po’ più “complicata”.
Ci siamo incontrati per la prima volta dal dottor P., uno psicoterapeuta che, quel giorno, aveva deciso di rimanere chiuso per lutto, e che, cosa ancora più grave, non aveva neanche pensato di avvertire i propri pazienti: cose da pazzi, non si fa, anche se era lui il “festeggiato”.
Sarebbe corretto dire che è stata la morte a farci incontrare, ma non è di questo che voglio parlare, voglio parlarvi di Vita: della nostra nuova vita, di come tutto è cambiato.
Quel giorno, davanti al portone chiuso dell’ormai fu dottor P., lei mi notò subito: “Fammi una cortesia, tirati su la giacca, togliti la camicia… Per favore, non riesco, non posso nemmeno nominarli, mi fanno schifo… quelle cose che vanno insieme alle asole…”
“Bottoni?” dissi non capendo, e subito dopo vomitò tutta la stranezza della mente umana.
Lei combatte una guerra contro la madreperla, l’osso e qualsiasi altro materiale che compone un bottone. La disgustano in assoluto i bottoni a due buchi bianchi, chissà perché…
Non sapevo soffrisse di Koumpounophobia, l’avversione per i bottoni. Una fobia poi non tanto rara, pure il compianto Steve Jobs sembrava soffrirne, lo dimostra l’invenzione del touch-screen.
Quel giorno ci sedemmo davanti a un caffè (un bar giusto dietro l’angolo, in un vicolo del centro storico), onorando il ricordo del dottor P. con la pagina Google aperta sui nuovi papabili “strizzacervelli”. Sì, perché chi pensa che ci voglia solo volontà non ha capito niente. A volte devono passare anni, decenni affinché questi tarli ci abbandonino. Quasi sempre sono gli stessi pazienti a proteggere le proprie fobie, perchè ci si affeziona: si finisce per catalogarli nelle “fissazioni”, nel reparto “so che sei così, so cosa ti fa soffrire”. Ma molto spesso si ignora che questi parassiti covano dentro bestie che ammalano l’anima di chi li ospita, e di chi li ama: depressione, esclusione sociale… sono leoni in gabbia mascherati da gattini. Bisogna accettarsi e curarsi, soffrendo, mettendo allo specchio parti di noi che non conosciamo, senza vergogna.
Si può fare, l’ho fatto.
“Ti ricordi il nostro primo incontro?”
Me lo chiede l’amore della mia vita, mentre mi specchio dentro i suoi occhi che sono il riflesso di una meravigliosa giornata invernale in spiaggia. Indossa un cappotto blu senza bottoni ed una sciarpa che le lascia scoperti solo gli occhi.
Camminiamo per la spiaggia immensa. Da soli.
“Tienimi la mano” sorrido e deglutisco.
Lei mi guarda, abbassa gli occhiali, si ferma, mi abbraccia.
“E tu dimmi che mi ami e che non aprirai mai una merceria…”
Ci sposiamo a maggio.
Molto interessante! Mi piacerebbe sapere cosa c’è di vero (:
Poi vorrei dirti di amare di più i tuoi finali: finisce troppo presto, mi sarebbe piaciuto un tocco-Giglio in più!
(Presto forse novità di cui penso sarai contento.)