Nel quartiere dove sono nato le rondini volano alte sui palazzi. Grigi ammassi di cemento che dopo poco più di trent’anni stanno cominciando a cadere a pezzi, un po’ come me. Tutto il mio quartiere sta cadendo a pezzi, ma alle rondini non gliene frega proprio un cazzo!
I piccoli pennuti bianchi e neri che cantano starnazzando fin dalle prime luci dell’alba si sono abituati a vivere male. Proprio come i palermitani. Invece di costruire dei nidi al sicuro lontano dall’uomo, hanno scelto, provocatoriamente, di stabilirsi sotto i balconi sgretolati dal vento, tra le intercapedini dei muri crepati, rischiando di veder distrutta la loro casa e i loro piccoli in un batter fragoroso di scope.
Non è molto lontano dall’agire dell’essere umano in fondo. L’altra sera, nei vecchi edifici abbandonati della scuola del mio quartiere, notai una luce accesa dietro la finestra di quella che un tempo fu la III C, la mia classe. Su un antico banco verde, un piccolo pargolo col culetto di fuori attendeva di essere cambiato dalla mamma. Anche gli uomini, come le rondini, si adattano. Lo devono fare, inevitabilmente. E i vecchi locali di una scuola media possono diventare una casa, una dimora, un’esigenza, una necessità.
Ma a Palermo una rondine fa primavera ed ogni piccolo gesto deve essere apprezzato come un miracolo, come un miraggio nel deserto, coma una piccola illusione di un’oasi tra gigantesche dune di sabbia gialla e rovente. Un’illusione che lascia il viaggiatore incredulo, esterrefatto.
Infatti, allontanandomi dalla periferia nord della città, passai per il mare. Non posso mai godere della splendida Mondello se non in primavera, senza cabine. Solo bianca sabbia tropicale e il mare celeste che si perde col cielo all’orizzonte.
Lasciando alle mie spalle Monte Pellegrino passo per la Favorita, il Real Parco. Il tentativo di pista ciclabile sulla carreggiata è un ottimo allenamento di rally. Vince chi ammazza meno ciclisti ovviamente. Sosta alla Palazzina Cinese. Tanto bella quanto tascia, nel senso storico del termine. La pacchiana villetta estiva della Regina Maria Carolina (detta Karo dagli amici) che dipingeva allegramente sulle pareti di casa i volti dei suoi cari. Nonostante le buone condizioni della struttra, ci sono più inservienti che visitatori, ahimè!
Dopo una tempesta di traffico cittadino che ha messo a repentaglio l’incolumità dei miei familiari e dopo aver venduto l’anima al diavolo per trovare un parcheggio, mi ritrovo davanti al magnifico giardino del castello della Zisa. In coda dietro dei turisti stranieri per fare il biglietto, perdiamo tempo a causa dell’impossibilità di comunicazione tra la bigliettaia e il capo gruppo. Infine prendiamo i biglietti ed entriamo. All’ingresso ci placca uno studentello del Turismo che ci accompagna con un pugno di fotocopie in mano, mostrandoci superficialmente il castello nei suoi tre livelli di poco e niente se non l’immensità storica della struttura stessa, di cui purtroppo non ci è dato conoscere molto se non dopo una veloce googlelata. Il giovincello ci saluta e va via solo dopo aver preteso di conoscere il numero esatto di diavoletti presenti nel dipinto della volta sopra le nostre teste.
Ci spostiamo nuovamente e purtroppo i mezzi pubblici non sono ancora così efficienti da essere presi in considerazione per un tour rapido della città; sono più un’avventura se si vuole, un’avventura a cui forse non sono ancora pronto.
Siamo al Foro Italico adesso, il lungomare cittadino. Con la bella giornata il prato è letteralmente invaso da corpulente figure indigene. È pieno di turisti e pit-bull che portano a spasso palermitani; il pit-bull sembra essere il cane più in voga a Palermo. Il turista, come allo zoo, osserva incredulo e un po’ divertito la totale mancanza di maniere del palermitano medio. Ma godersi questa strafottenza è straordinario. E mi sono già perso tra ascelle sudate e caramelle profumate, tra palloncini e fumi di arrosto, tra palermitani nuovi e vecchi. Bambini africani di nascita ma palermitani per vocazione ci scorazzano accanto urlando in dialetto frasi e parole che io mai avrei osato dire o pensare. Ma è bello perdersi nel caotico contesto urbano di una giungla metropolitana multietnica.
E poi il must di questa mia visita in città: la pedonalizzazione di via Maqueda. Camminare fa bene al palermitano che spavaldo si pavoneggia dentro i vestiti buoni della domenica, passeggiando spensierato per la strada, dai Quattro Canti fino al Politeama, quasi tutto d’un fiato! Con in mano una brioches gelato o una pistola carica non importa: la domenica anche il palermitano va in centro a fare le vasche e gli piace! E in fondo sta cominciando a capire cosa vuol dire godersi la propria città. Lasciare per un giorno la macchina lontano più di un chilometro, un chilometro e mezzo, e sedendosi su una panchina sporca, mangiarsi un gelato, chiacchierare con qualcuno, sparare ad un africano: insomma… le cose che si fanno in una città qualunque.
D’altronde a volte bisogna sapersi anche accontentare, e a volte vedere anche solo un piccolo segnale può farti capire che, da quando sei andato via, la tua città natale sta cambiando, lentamente. Ha bisogno dei suoi tempi, mischina. Basta veramente poco per far Primavera, per rinascere; a volte il volo di una piccola rondine che si libra in aria tra vecchi palazzi, verso le montagne. A volte un quartiere che si ribella alle azioni mafiose del branco. Palermo sta cambiando. È così, dobbiamo crederci, e i palermitani sono avvisati!
Eppur si muove, lentamente, quanto una lumaca zoppa(?), ma…eppur si muove.
Io mi sforzo di camminare a piedi. Prendere il tram, lasciare l’auto in via ernesto basile pur di arrivare al centro senza impazzire. Ho due bambine, confido nel mio esempio, anche se poi si lamentano per la strada…