Vedo i miei primi pazienti quest’anno: una gioia, uno schiaffo, una conquista, una grossa, enorme, morbida responsabilità. La sento quando ritrovo in loro l’umanità, le parti di me, la tradizione, i fallimenti, le epoche e i cambiamenti a cui è difficile stare appresso. Gli amori. Ma quanto ama la gente? Eppure, “la gente sta male”, mi dice gente che sta male; in clinica abbiamo un faldone di 25 centimetri con richieste di presa in carico accettate e in attesa. Ogni tanto vedo nomi di amici e sono orgogliosa di loro, come anche dei miei pazienti e di me come paziente, perché so quanto sia difficile mettersi in gioco, fare tabula rasa di fallimenti, convinzioni, modi di stare al mondo e chiedere aiuto. Uno schiaffo sacrosanto, salvifico, all’onnipotenza… Ma pur sempre uno schiaffone!
“Buongiorno! Cosa la porta qui?”, detto col tono più accogliente che hai, per quanto ti possa scoppiare la testa o la pancia si rivolti contro il panino appena ingerito in 4 minuti. E sul dolore, poi, inizia il lavoro, lo sforzo conoscitivo e riflessivo. Faticoso, ma non si è soli: lo facciamo insieme, e a me sembra di continuare a crescere; lievito piena dei vissuti altrui e dei miei vissuti su quelli altrui, me li porto a casa e penso a cosa possa far bene, a come smuovere il fondo melmoso di anni di non-narrazioni e di non-bisogni. È forte sentire la responsabilità di un sorriso, dell’acquisto di un vestito nuovo verde-vita, di una donna di quasi 60 anni che chiede a te come fare per rinascere. A volte vorrei abbracciarla. Non pensavo di poter gioire in silenzio di un rossetto rosa spalmato sulle labbra, di poter fare tanti complimenti al mio prossimo sconosciuto, di poter notare come ogni persona si tocca in maniera diversa i capelli o sta seduta. È strano tutto questo, ti solletica, ti stanca, ti responsabilizza, ti narcisizza, ti angoscia. Ti mette sempre a lavoro con te stesso e con gli altri. Tu sei lì, dopo anni di attese, a cercare di capire quale sia il bisogno di una persona, a lavorare sulla consapevolezza di intenzioni e azioni, su spinte e desideri, sull’indagine di noi stessi e sul dialogo. Senti e solleciti la necessità di narrazioni oneste, di bandire le giustificazioni su ciò che non possiamo dire o dirci. Senti il bisogno di svelamento, ma… quanto è difficile fare tutto a suo tempo? Come riconoscere il vissuto, proprio e altrui, con tutto il peso della sua relatività? E come elaborarlo, frammentarlo, masticarlo per sé e per gli altri? Come digerirlo e insegnare la funzione della digestione? Come imparare e insegnare insieme a partorire interpretazioni opinabili della vita?
Non siamo volontari, quello no; è un lavoro, ma è anche un modo di esserci, di essere, con una formazione lunga, che ti rompe le ossa, millanta la gobba e ti mette gli occhiali. Alla fine della quale siamo “clinici” NON nel senso del camice, dell’ospedale, del potere della superiorità professorale e del supposto sapere; “clinici” nel senso antico di “klìno”: “occuparsi di qualcuno, piegarsi, inchinarsi verso qualcuno, mettersi al servizio di qualcuno”, ovvero rivolgerglisi con empatia e desiderio etico di confortare e di aiutare. Che sono tutte estrinsecazioni dell’“esserci per l’Altro”. Perché cos’è quello che facciamo dentro le nostre stanze, se non un percorso di visione dell’Altro? E di lavoro sul vedere sé con l’Altro? E l’Altro che è dentro di noi e magari anche nel mondo reale a cui il singolo è in ogni momento connesso?
E nel momento in cui rinascono insieme a noi menti pensanti capaci di vedere e di vedersi, lì si vede che la costruzione delle narrazioni oneste o torbide riguarda il singolo ed anche la collettività, che non possiamo separare i due livelli, se non dietro false narrazioni politicanti, berlusconizzanti, interessate. Lì vedi che la narrazione onesta cura il soggetto, la relazione e, attraverso essa, la comunità, perché il tuo essere psicologo aiuta le co-costruzioni democratiche di significati, la messa in circolo di senso che cura la passività, il non coinvolgimento, la cecità emozionale. Lì vedi che la psicologia nasce con questo compito sociale; “non c’è psicologo che non sia prima cittadino”, disse uno dei miei insegnanti, celebrando nella mia mente il SS. matrimonio della psicologia col bisogno politico collettivo.
“Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace” (dall’Articolo 3 del Codice deontologico degli psicologi italiani).
…È anche così che può esser-ci quel famigerato mondo migliore.
“Usateci”!