Era seduto da solo, spalle al mondo, proiettato verso la cucina orientale, i tavoli apparecchiati, l’acquario e il resto della sala. Indossava un cappotto marrone che veniva inseguito da una sciarpa rossa, persa al di sotto di un grande collo, che sosteneva un viso in cui le rughe si trasformavano in lingue di asfalto bollente, alimentate da grandi borse nere tenute a fatica dagli occhi; gli stessi poi, erano coperti, in parte, da una montatura pesante e fuori moda. Di tanto in tanto, una grossa mano portava alla bocca una moderna pipa, carburata a nebbia, che lo trasformava in una creatura leggendaria, simile a un drago cinese.
Il boulevard liberty che scorreva alle sue spalle, dava quasi l’impressione di trovarsi in una città europea al di là delle Alpi: Parigi? No, no, Barcellona, o meglio Madrid… l’uomo che disegnava dal tavolo di fronte fu propenso ad optare per la seconda ipotesi: stava per crederci o forse è lì che avrebbe voluto trovarsi.
L’uomo che disegnava, amava perdersi in pensieri astratti. Non aveva studiato tecniche particolari, ma si divertiva comunque ad inventare storie che poi tracciava su un piccolo album con piccole matite rubate ad un grande magazzino: felice di ricevere in cambio, dalle proprie muse, sorrisi sorpresi.
Quando il Drago ordinò, salutò il cameriere con affetto, dicendo che avrebbe mangiato tutto e tutti, ordinando a volontà, prima della chiusura pomeridiana di sempre: in perfetta solitudine, come amava, o meglio, com’era costretto a fare da un po’ di tempo.
L’uomo col taccuino continuò a tracciare con cura ogni linea di quella figura leggendaria, aggiungendo qualche albero ancora spoglio alle sue spalle e, sognando una primavera ancora lontana, abbozzò un sorriso dagli occhi affamati, fissando gli involtini a tema appena serviti.
Mentre gustava quei piccoli anticipi di stagione, tese l’orecchio al tavolo di fronte, ascoltando le conversazioni basate sull’ultimo dell’anno.
“Chang, saresti così gentile da riservarmi un coperto per dopodomani?”
Il cameriere lo fissò a lungo, allontanando coraggiosamente una sedia dal tavolo e affrontando la compagnia improvvisata della belva. Poi, prendendo un po’ di tempo e spostati alcuni piatti, servì un amaro sorriso di circostanza.
“Mi piacerebbe, lo sai, ma qui tutto pieno per ultimo dell’anno… piuttosto, tu non dovevi vedere tua figlia che viene da Londra? Passare capodanno con lei?”
Fu a quel punto che il Drago, disegnato in modo minaccioso dall’uomo col taccuino, venne sfumato con tratti leggeri e gommapane. Sul foglio, il Drago sembrò sgonfiarsi, cadendo rovinosamente e rilevandosi per quel che era: semplice e fragile cartapesta.
“Le mie figlie… devo per forza raccontarti tutto? Non mi vogliono vedere… però Chang, sai, io ci tengo a venire qui, mangio bene, c’è bella gente, se significa pagare altri coperti pur di avere un tavolo…”
Il cameriere chinò la testa, agitandola leggermente:
“Non serve comprare tavolo se mancano sedie… mi spiace”.
Chissà cos’aveva combinato quell’uomo per passare l’ultimo dell’anno da solo. Non riusciva proprio ad immaginare quale solitudine potesse esserci in un essere così grande, ingrassato e invecchiato dal tempo. Questo pensò l’artista di carta prima di chiedere il conto.
Lui non aveva figli, non ancora, ma c’era comunque qualcuno nella sua vita: una ragazza dai tratti delicati che lo aspettava la sera dopo una giornata di lavoro. Pensò a lei, al capodanno organizzato la sera prima, dopo aver fatto l’amore tra le lenzuola e le risate della sua voce di cristallo che solo lui riusciva a sentire; ai suoi “ti amo” sussurrati sulle dita della mano; ai suoi disegni, pentagramma ed unica sua voce; alle luci accese nella piccola casa in cui abitavano, ma in cui regnava il silenzio.
Il Drago, sfinito, inforcò gli occhiali che lo rendevano ancora più vecchio, riprovando a riservarsi un posto con la ragazza sorridente che veniva a servirgli il conto. Diede una sostanziosa mancia e, carezzandole le mani, domandò per l’ultima volta.
“Grazie per tutto, posso chiederti un favore? Se possibile, un tavolo per la notte di capodanno”.
La ragazza disse qualcosa in cinese al proprietario che, gentilmente, negò nuovamente la presenza di quell’uomo per l’ultimo dell’anno.
Il ragazzo col taccuino, pagato il conto, si avvicinò al tavolo del Drago con soggezione, lasciando cadere distrattamente il ritratto che aveva tracciato a matita e che si era premurato di piegare con cura.
Dal viale trafficato di quella storica città, violentata da palazzi di vetro, il piccolo artista muto vide sorridere per la prima volta l’uomo che teneva in mano il suo piccolo drago di carta.
Il piccolo artista avrebbe voluto invitarlo a casa. Ma sì, dai, in fondo non c’è niente di male. Avrebbe messo un po’ di musica, aggiunto un piatto in più; spiegato tutto la sera stessa alla piccola compagna intrappolata nella campana di vetro.
Stava quasi per rientrare nel ristorante quando, alzata la pipa in segno di saluto, il Drago sparì nella nebbia della sua solitudine.
<3 beeello!
Grazie Cristina :*
È veramente bello entrare nel cuore delle persone, entrare nel loro mondo, grazie all’attenzione che ci mette sempre Marco! Complimenti!
Grazie Massi :)
Sofisticate parole comprensive di dettagli ed elementi curati e incisivi che secondo me raccontano più la solitudine dell’artista che del Drago. Ad ogni modo, un nuovo goal segnato nei cuori di noi lettori. Bravo Marco!
grazie :*