CastelV. era un normalissimo paesetto della costa sud: mare ghiacciato, cibo buono (soprattutto le arancine al bar del corso), 36mila abitanti circa, un po’ dolci crozzoni da pane&ricotta, un po’ piruocchi arrinisciuti e per il resto intellettualoidi di sinistra fisiologicamente outsider. A CastelV. la provincia trapanese a volte gli stava stretta e lontana, e pure a me, costretto a fare su e giù da Palermo da vent’anni per tenermi il lavoro in azienda e con lo stesso stipendio di sempre, pure ora che i benefit e i trasferimenti per i pendolari sono bloccati come i cervelli dalla crisi. E così su e giù.
D’estate andava meglio, con i giorni liberi buttato sul mare poco affollato di casa. Qua non era per niente come Mondello ed io non rimpiangevo nulla del capoluogo, se non i chilometri che mi separavano ogni giorno da casa: andata e ritorno; andata e ritorno sempre, con a destra dell’autostrada il mare e a sinistra le montagne verdi o più gialle a seconda del mese.
Quest’anno ero più stanco del solito. Più arrabbiato del solito. Me le sono concentrate tutte ad agosto le ferie: 3 settimane di capelli + barba sale&pepe perfettamente salati e le mie abitudini: pantaloncino beige da vacanza, sandaletto del periodo, maglietta unicolor tendente al blu e fanculo a camice e mocassimi! Poi i pranzi per gli eserciti di Cetta, l’immancabile riposino pomeridiano col picciriddo nel mezzo del letto e il pomeriggio al bar-tabacchi in zona villa a fare quattro chiacchiere con gli amici sorseggiando caffè, calzoni autoctoni (panati e infinitamente più buoni di quelli di città) o brioches con dentro la granita di duro limone. Sullo sfondo, sbiadito, il verde dei pini della villa. Sulla testa il sole, il cavuru e la finestra, che si apre sulla biancheria stesa, da cui Cetta mi chiama per la cena alle 20: “Una sigaretta e arrivo!”. Ho iniziato con le Nazionali da quando faccio su e giù, con Giovy che a due anni e mezzo lo vedevo solo a cena e poi andava dritto a dormire. Le Nazionali le compro solo in paese; mi fanno compagnia in macchina nelle due ore quotidiane di viaggio a 120 km orari (e sono 120 solo per non prendere la multa). Domani si riprende il fottuto trantran e ne ho presi due pacchi per sì e per no.
Dormo poco ed è subito domani: ore 6:45 ed ho già fretta; i bottoni della camiciazza nuova ci sto secoli ad abbottonarli fino al collo ancora addummisciuto. Ore 7:20: accendo la macchina tisu dentro il vestito rigido di amido; grazie a Dio alle 7:30, ancora non fa caldo e posso arrivare alle 8:45, prendere un caffè + Nazionale e mettermi la cravatta con calma. Oggi riprende anche lo zio Piddu; lui è da quaranta di anni che fa stu acchiana & scinni; mi parse stanco st’annata e al tabacchi parlò sempre di pensione, ché purtroppo gli mancano ancora sei anni. Lui esce alle 7:30 come me, ci salutiamo, ascoltiamo i cavalli meccanici più vivi di noi con un po’ di lutto addosso. “Le puttane ce le hai?”. Era il nostro babbio per sdrammatizzare sul magro intrattenimento-da-viaggio. Piddu canta “la vita è bella e s’av’a travagghiare p’un pezz’i pane… c’a lassari ccà!” * ; nel mentre mi mostra il pacchetto in tasca, poi parte strizzando l’occhio con una delle amiche in bocca. Io lo seguo per sentirmi meno solo. Supero il bar-tabacchi con le macchinine esposte in vetrina accanto agli accendini (molto anni ’90), la villa, i pini, i cassonetti for ever pieni, lo stop che è valido dalle 8 spaccate in poi e così si tirerebbe dritto per evitare di allungare di dieci minuti. Semaforo. Aspiro una sorsata di fumo e Piddu lancia il mozzicone dalla macchina come un cowboy del 2000. Lui se le suca proprio ste sigarette di quanto il nervo se lo mangia vivo e poi si mette curiuso, con le mani dinoccolate a fare segno di “ok” con la sicarra fumante là in mezzo, per un attimo immobile tra pollice e indice e poi lanciata più lontano possibile in un veloce, puntuale, schioccar di grosse dita. Era un rito, e dei riti da noi bisognava avere rispetto. Così vorrei non aver visto il mozzicone che cade sugli aghi di pino secchi di fine agosto e fa una scintilla di fumo. E vorrei non aver guardato l’orologio, né il semaforo arancionato.
1. “E se…?”. […] Secondi di niente. […]
“Vabbé…!”. 6 minuti e inizia il divieto. Il direttore non avrebbe aspettato, con la sua aria da professorino ripulito di destra spinta ché manco ti dà la pausa-sigaretta prima di pranzo. Sarà stato molto fascio prima dell’azienda e ora si sfoga accussì. E insomma: vabbé…! Che deve succedere? Prima e via, ché prima parto e prima torno.
Non te lo immagini neanche, né manco ci credi – non ci si può credere infatti! -, che poi al telegiornale delle 13, quello concesso al self-service con la pausa-sigaretta, si vedono ceneri e storie di bruciato: c’era un mozzicone a CastelV. Un mozzicone acceso sugli aghi di pino a casa mia. Quel mozzicone di CastelV. prese gli alberi, poi i rami secchi di quelli di fronte e di quelli accanto fino ad arrivare a tutta la villa, ai cassonetti ripieni, alla piazza, alle biancherie stinnute dei balconi. Cetta che oggi non mi chiama come al solito. Cardiopalma e altre robe secche in tv. Cerco il telefono in tasca e loro cercano il piromane mentre vedo nella mente la faccia stravolta di fine-ferie di Piddu. E la mia casa? Ho visto in tv la finestra bruciata. E Giovy e Cetta? Sento puzza di paura e di pino, mi gira la testa e inizio ad imprecare: impreco e impreco contro il direttorino del cazzo che ci vuole puntuali, maledico la tv, impreco contro la pena che mi fa Piddu che gli ultimi sei anni di lavoro se li passerà ai lavori forzati. Insulto la mia vita grama, grido, tiro calci e pugni di stanchezza, mi graffio la faccia per non essere sceso dalla macchina: solo, povero e pazzo. Orfano e vedovo e pazzo. Questo mi merito io, figlio di puttana ignavo, schiavo di orari da burocrati senz’anima che solo in cravatte e Nazionali possono trovare identità. Acchiana & scinni, scinni & acchiana e corri verso un lavoro alienante che di vista ti fa perdere la vita e, infine, tutto quello che hai: tutto bruciato, al rogo, come le vecchie finte-streghe. E’ la fine. La mia fine, per quei miseri “6 minuti e inizia il divieto”.
2. “E se…?”. […] Secondi di niente. […]
Mi passano storie di tragedie tra gli occhi fermi al semaforo: una cosa qualunque, un rivolo di vento e stu fumo chissà chi cuosa addiventa… Ci sono i pini, le erbe secche della villa, le insegne di legno del bar-tabacchi, le munnizze, le biancherie stinnute. Suca al semaforo e ai minuti sottratti alle sigarette dell’arrivo, quelle streghe! Tiro forte il freno a mano. Entro al bar, accatto l’acqua chiù fridda chi c’è e la butto addosso al mozzicone. Poi lo prendo e ci sputo addosso. Qualcuno aspetterà e me ne fotto se è roba da finocchietti! Mi prendo il caffè del mio paesetto, mi faccio pure incartare l’arancina per il pranzo, alle 8 apre il mio tabacchino e accatto 2 posaceneri da mano: uno pi mmia e uno per Piddu. Cetta si affaccia per ritirare la biancheria, mi vede ancora qua e mi fa un gestaccio con la mano che sa di “Attia, disgraziatazzu viziuso!!!”. Le mando un bacio dolce al pensiero di quello che c’è o che non c’è dentro un “E se…”. Come quel film, Sliding doors, ca nnì vittimo avant’ieri all’arena: basta un secondo in meno e puff: vite bruciate: fine. Ché “la vita è bella e s’av’a travagghiare p’un pezz’i pane… c’a lassari ccà!” * .
BELLA
Grazie Cris! Mi è piaciuto scriverlo!