C’è qualcosa che non sopporto di mia moglie che, probabilmente, accomuna molti altri compagni/mariti/poveri cristi: la leggerezza con cui sottovalutano il tuo 37 e mezzo di febbre.
Prima o poi, praticamente due minuti dopo aver appreso della tua malattia invalidante, se ne escono sempre con la solita frase fatta: “Sei esagerato, cosa vuoi che sia un po’ di febbre”.
Cosa vuoi che sia un po’ di febbre.
È domenica sera, il termometro della suocera (fornito con tanto di sorrisino idiota) segna già 37.6. Porgo il termometro a mia moglie che, tra l’altro, ha perso qualche diottria rinfacciandomi il causato allarme.
La correggo, comprende l’errore cercando di non far trapelare l’orrenda scoperta a tutti i parenti vicini; come se, in qualche modo, potesse fermare l’avanzata dei batteri presenti in ogni particella dell’aria che abbiamo condiviso per tutto il pranzo.
La sera, tra l’altro, ci aspetta a teatro un favoloso, incatevole, spettacolo di principesse. Anche se bisogna prendere l’autostrada, conoscere la strada, poco importa se bazzichi la zona da dieci anni… Succeda quel che succeda, c’è solo un uomo che può accompagnare regina e principesse sul loggione: io.
In verità, c’è stato un intermezzo con un dialogo colorito, tipo: “Ma a ‘sto spettacolo di merda, non possiamo andarci un’altra volta che ho i brividi e 38.6?”, “No, è tutto pagato, in prevendita”, “Non puoi andarci da sola? Conosci la strada… te la senti?”
Ecco, a questa domanda, qualsiasi donna dotata di orgoglio e senso di responsabilità coniugale avrebbe risposto “Sì”. Alla fine, però, dopo mille espressioni in cui immaginavo incidenti e forature in autostrada, mi sono immolato. Poco importa se guida benissimo…
Arriviamo a teatro, mille e mille bimbi allegri, pronti allo spettacolo. Tutti elettrizzati, tutti felici.
Saluto gente che non vedevo da mesi con la stessa socialità di un profilo fake su Facebook.
Da dietro le tende sbuca un clown/presentatore che si appresta ad avviare lo spettacolo. Comincia il countdown: ho la fortuna di avere l’ultimo posto della fila, così, penso, se vomito almeno non sporco nessuno. Cerco di evitare contatti con chicchessia, giusto per non passare per l’untore del paese.
Lo spettacolo inizia, io sono l’unico con sciarpa, giubbotto, tremori sparsi.
Gli attori cantano in playback e già mi girano le palle: se sono a teatro mi aspetto una recita, anche se si tratta di uno spettacolo per bambini, ma forse è la febbre che mi rende ipercritico.
Una figlia è accanto a me, l’altra è affidata al destino. Volano patatine e l’odore dei pop-corn mi provoca conati.
“Papà ne vuoi?”
Non bisogna distrarsi, non bisogna distrarsi, diventa il mio karma; cerco di rimanere lucido, evitare scossoni improvvisi, bere tanta acqua, che non ho.
Finisce il primo atto, scambio la principessa Elsa per Mary Poppins, sbuca fuori un immenso, improponibile Olaf, che causa lo scoppio vigoroso di piccole vocine pucciose e carine, ma quasi svengo per l’emicrania e… forza siamo a metà.
Non ho il termometro ma qualcosa mi dice che siamo sopra i 38.5, gli occhi mi fanno male, la luce per fortuna è solo sul palco: illumina il clown e mi torna in mente IT. Forza, puoi controllarlo, puoi controllarlo.
Dico qualcosa a mia figlia tipo: “bagno, papà, cacca”, lei mi fa cenno che non piangerà e scappo per il bagno: meraviglioso, pulito, vuoto.
Torno a sedermi, la differenza di temperatura accentua ancora di più i tremori e da dietro sento qualcosa tipo: “Uao, che lusso. Non pensavo avessero le poltrone vibranti”.
Penso che sia finita come quelle partite guardate allo stadio sotto la pioggia battente, che poco importa il risultato basta solo che torno a casa, invece no. Il clown annuncia che alla fine dello spettacolo tutti i bambini potranno farsi la foto con il gigantesco Olaf, che poi altro non è che uno studente del DAMS di un metro e ottanta con l’ambizione di una pulce.
Il risultato è uno tsunami di bambini che ruba via preziosi minuti vitali. Guardo mia moglie, scuoto la testa, indico la più piccola che surfa pagaiando verso la riva, verso il parco, verso Olaf, travolto dall’onda anomala.
Mi scoraggio, l’onda si trasforma in una fila più o meno ordinata, l’attesa diventa snervante.
Lascio tutto e raggiungo la hall, voglio la mia dannata Fiat Punto con la sua puzza di cane bagnato, la polvere sul cruscotto e il riscaldamento a palla. È parcheggiata qualche metro dal teatro, ma sembrano chilometri. La vedo, ma aspetto ancora madre e figlie, nel frattempo tremo.
Arrivano. Comincia ad uscire gente dal teatro. La porta lascia entrare dell’aria fresca che mi rende ancora più asociale. Mi accuccio, in posizione fetale, sollevo la sciarpa, lascio fuori solo gli occhiali: ridicolo, ma salvo.
Alla fine, resta solo l’ultimo atto, penoso, di una serata decisamente no: il saluto ad amici che non ho degnato di uno sguardo.
Cerco di dire qualcosa di intelligente ma dalle labbra esce qualcosa tipo: “Scus… ho la febb… sto male… CIA'”
L’epilogo è una “scaffa” presa di botto che rischia di tramortire i semiassi; l’autostrada percorsa piano piano, senza autoradio, con sottofondo di brividi.
Arrivo a casa portandomi sulla schiena due zaini, l’ascensore è al 13° piano, ne faccio due a piedi, arrivo a casa, collasso a letto.
Durante la notte parlo con i mobili, le tende, gioco a scopa con le madonne ricevute su whatsapp mentre il termometro, ancora caldo di ascella, segna 39.8°.
Cosa vuoi che sia un po’ di febbre.
maledetto olaf
:)) odio