di Lucia Immordino
Questa la sensazione che prova: di non respiro.
Niente inspirazione niente espirazione.
Niente attività polmonare niente movimento toracico.
Niente battito cardiaco niente pulsazioni.
Occhi e orecchi chiusi.
La vertigine del disorientamento l’ha relegata in quell’angolo nero dove scorge se stessa morta, o quasi.
Sì, lei, accartocciata, si osserva da quello spigolo dove l’oscurità l’ha esiliata fuori da cose umane.
È notte.
La luce intermittente, che da fuori si insinua attraverso le fessure sfasciate della finestra, non le permette di vedere l’asse cartesiano della sua funzione perfetta.
Solo un buio profondo (che tanto gli occhi si abituano a vedere nelle tenebre) l’aiuterebbe a comprendere l’enorme paradosso: senza interruzioni senza intermittenze.
Intravede sì e no una parabola, invece.
Lei non è più umana, anche se piegata in due con le ginocchia raccolte che la confortano e le sorreggono il viso.
Lì, in quella testata d’angolo, è altro è altrove, nonostante il suo corpo giaccia su un letto umano tra lenzuola e coperte umani e rimasugli umani.
Sente di aver travalicato il confine, una specie di luogo dove ogni cosa è senza limiti e l’intero va in tutte la direzioni possibili: ondeggia in una quarta dimensione, fluida liquida.
È notte.
Luci intermittenti penetrano veloci e prepotenti tra le fessure spezzate della finestra.
Dall’angolo avverte un impercettibile movimento: è fiato, niente più apnea.
Ad un tratto non abita lo spigolo, si ritrova nella sua carcassa fatta di carne e sangue e dove ogni respiro è dolore.