Ho sempre avuto la consapevolezza che i più non avessero idea di cos’è il lavoro dello psicologo. In merito, la dice lunga la famosa frase sulle bocche di troppi “sono anch’io un po’ psicologo”, con la sua variante “sono una psicologa mancata” o ancora l’alternativa più hot “non serve la laurea per fare lo psicologo!”.
Orbene, questa consapevolezza non mi lascia in pace. Mi chiedo spesso cosa pensino le persone della nostra professione. Se ritengano che si basi solo su intuito spiccio e che all’università studiamo pratiche di sbucciamento delle noccioline e NON modelli relazionali, cicli di vita di singoli e famiglie, psicopatologie e loro eziopatogenesi, dinamiche di gruppi piccoli, medi e grandi, rapporti mente e corpo, modelli di cura e tante altre cose che hanno a che fare con la conoscenza dell’umano e con le abilità che servono per maneggiare questa conoscenza traducendola in “cura”. Mi chiedo inoltre se queste stesse persone pensano che noi “psi” siamo ulteriormente stupidi come scimmie laddove dopo 2 lauree ci andiamo anche ad abilitare come Psicologi d.o.c. (con incluso pagamento annuale di ordine ad hoc) studiando come piccole formichine teorie, modelli, metodi di progettazione psico-sociale, di riabilitazione, di diagnosi, di prevenzione e di promozione della salute. Senza dimenticare tutta la sfilza di tirocini, master e scuole di specializzazione che rendono uno psicologo (che – mischino! – fino a qui pare a tutti che abbia studiato proprio pochino!) esperto di una determinata branca dell’esistenza umana o, addirittura, uno psicoterapeuta. E qui si ricomincia d’accapo: “cosa-essere-psicoterapeuta?”, “sono anch’io un po’ psicoterapeuta!”, “sono una psicoterapeuta mancata”: “non serve la laurea per fare lo psicoterapeuta!”.
Avete idea di quante volte amici, parenti, conoscenti, colleghi di lavoro e “principali” mi hanno ripetuto questa frase con nonchalance? Tu all’inizio di in…alberi; poi, siccome i tuoi mille training ti hanno insegnato a tollerare la frustrazione, incassi il colpo e cerchi di problematizzare la frase; alla fine sorridi a mezza bocca comprendendo con leggerezza che chi dice così lo fa per un bisogno personale di qualsivoglia natura su cui hai imparato a sospendere il giudizio. …Ecco un esempio di ciò a cui serve la formazione “psi”!
Eppure, il problema resta serio. E’ serio perché chi dice così, pur avendone bisogno, non andrà mai da un professionista. E’ serio poiché non invierà mai neanche un figlio-amico-parente che soffre dal suddetto professionista, né affiderà mai la sua azienda problematica ad un vero professionista della salute. E, soprattutto, il problema è serio e serissimo poiché così una quantità inimmaginabile di persone non ha la possibilità di stare “bene” o “meglio”, cosicché la Qualità della Vita generale della popolazione italiana non può che abbassarsi drasticamente.
A volte penso che abbiamo le mani legate. Legate dalla cultura medicalista, che riconosce il farmaco come cura di tutto. Legate dal narcisismo tecno-protesico imperante, che fa sentire tutti un po’ psicologi, medici, idraulici e quant’altro grazie a Google. E legate dalla diffidenza dei famosi più, che denigrano la professione sentendosi sempre una spanna sopra “questo che ti talìa e ti ascolta come il vicino di casa” (…non è una frase inventata, stiamo attenti!). Invero, in tanti pensano ancora che noi “strizzacervelli” siamo venditori di parole; questi “tanti” non colgono quanta fatica ci stia dentro l’atto dell’ascolto e non si chiedono come mai ricordiamo nomi, luoghi, storie, esperienze; forse non sanno quanto li pensiamo e non colgono il tempo che dedichiamo loro dopo l’ora che condividiamo; forse non riflettono sul fatto che scriviamo le loro cartelle cliniche, che i casi li discutiamo con i colleghi ed in supervisione, che ci occupiamo tanto della loro cura, oltre quanto si potrebbe semplicisticamente pensare. Preferiscono semplificare e non valorizzare le competenze dell’Altro, invece di chiedersi quanta tecnica ci sia dentro il trasformare i vincoli in opportunità ed usare se stessi come strumento di cura. Preferiscono dubitare del perché chiediamo puntualità senza interrogarsi sul fatto che anche questi parametri curano e che sono ragionati, ritagliati sul paziente come ogni frase che condividiamo. Questi stessi più si domandano perché chiediamo un pagamento per una cosa così semplice (mangiafranchi che non siamo altro!) . Ed addirittura perché per un cambiamento stabile ci voglia del tempo e non funzioni un semplice, alchemico, abracadabra.
E’ di pochi mesi fa quel grazioso episodio in cui un titolare iniziò a sostenere che non comprendeva perché dovessi parlare col responsabile dei suoi operatori, perché avessi problematizzato lo scarso rispetto per orari, spazi e confini, una comunicazione poco chiara tra direzione e operatori ed una leadership autoritaria, affermando che lui era lì da oltre vent’anni e quindi ne sapeva più di me sull’argomento in oggetto. Parlai di capri espiatori, di interstizi e di clima paranoide poco funzionale alla qualità del lavoro. Ma furono solo blabla, mentre un collega non psicologo per cui il problema dell’ente erano i lavoratori venne acclamato per questo suo insight, come quando propose soluzioni quali più rigidità e più uscite per gli utenti; fu ritenuto più competente di me anche quando sottolineò quale fosse il tempo giusto (!) per contattare la psichiatra di uno psicotico scompensato. Alla fine, per fare solo un ultimo esempio, il principale ritenne opportuno sottolineare come le differenziazioni da me proposte tra dispositivi diversi (ad es. gruppo formativo diverso da gruppo di riflessione… ma la differenza tra i set(ting) reali era assai più macroscopica!) fossero poco utili: potevamo fare tutto in un’unica “riunione”! Mi licenziai. Ma non prima, purtroppo, di esser stata circuitata dal sistema amico-nemico che rende amico gradito chi collude ed un fastidioso nemico/capro espiatorio chi, come uno psicologo, apre questioni, pone interrogativi e dà risposte poco economiciste che mettono in discussione l’esistente.
Mi hanno detto che da queste esperienze si impara tanto. Ad esempio che lo psicologo si siede scomodo dentro una cultura del lavoro (ma anche della persona, della famiglia, della collettività e dello Stato) INcompetente che preferisce lamentarsi mentre dice che “i panni sporchi si lavano in famiglia”, che “certe cose [n.d.r.: dire le cose come un osservatore clinico le rileva, pane-pane, vino-vino!] le persone perbene non le fanno” e che “siamo tutti un po’ psicologi”. Una cultura del lavoro (ma anche della vita) che vede l’Altro come un Clandestino, un Nemico, un Alieno, una Minaccia, un Diverso, un antipatico “Strizzacervelli”. Ma – ahinoi! – stare scomodi fa parte del nostro mestiere, per il quale – che vi piaccia o no – ci formiamo duramente; una delle nostre caratteristiche è “svelare”, la qual cosa difficilmente può essere accettata dai famosi più di cui sopra. Tuttavia, l’antidoto a questa svalutazione nazional-popolare della psicologia è continuare a formarci ed a coltivare le nostre competenze per Amore della Cura.
Io, per parte mia, ho perso il conto dei “miei” contesti formativi e penso che probabilmente la prossima volta mi prenderò cura di me e del sistema in modo meno rivoluzionario e più paziente. Intanto ho detto al mio ex titolare che lui non è affatto “un po’ psicologo”, altrimenti non mi avrebbe assunto; poi ho tirato un sospiro di sollievo e per una volta ho lasciato andare chi “voleva cambiare tutto per non cambiare niente”.