Quando gli dei distribuivano il buon senso noi eravamo a gettare sassi dal cavalcavia. Estraniati rispetto al mondo, a questa melma urbana che insozzava le nostre esistenze e ci trascinava sempre più a fondo. Estraneazione. Alienazione.
È così che cominciò tutto: si chiamava Ronda, come un paesino della Spagna del sud. Venne assunta subito dopo che Masha fu buttata fuori per quella storia di droga: usava il bar come zona franca. A noi faceva comodo, certo, ma quello stronzo di sbirro le gironzolava attorno un po’ troppo spesso ultimamente. In borghese, è vero, ma uno sbirro lo si riconosce subito. Così Masha dovette andarsene e Ronda prese il suo posto. Non parlava molto con gli altri colleghi. La sera, quando anche l’ultimo cliente sloggiava, prendeva la bottiglia di Rum, due bicchieri e si sedeva di fronte a me: li riempiva e diceva “bevi!”. E poi niente. “Bevi!”. Nonostante inizialmente fossi affascinata da questo mutismo alcolico, dopo qualche sera iniziai a farle delle domande alle quali lei rispondeva schiva, finché una sera disse: «Dovresti venire a casa mia». E così la seguii.
Chiamarla casa era davvero esagerato: un garage con un buco di cesso in un angolo, un lavello e un fornello in un altro angolo. Due sedie, un tavolo e un divano facevano da complementi d’arredo a quell’ambiente desolato. Un armadio a muro fungeva da guardaroba e dispensa, con le mutande sopra i barattoli di fagioli impolverati.
Ci sedemmo e lei tirò fuori da uno sportello l’ennesima bottiglia di Rum e dei bicchieri stranamente familiari.
«Ma sono i bicchieri del bar!», mi stupii a quei tempi.
«E allora? Tu non rubi al bar?»
«Insomma…qualche volta ho mangiato degli stuzzichini ma no, non rubo!»
«Dovresti. Voglio dire, quel posto ci ruba tutta la nostra energia vitale, dobbiamo prenderci qualcosa in cambio!»
«Ehm, sai, ci pagano un salario in cambio del nostro lavoro…»
«Quello ce lo devono in cambio del lavoro. Ma le nostre vite? Passiamo ore là dentro senza poter vivere come vorremmo. Se potessi scegliere non starei certo tutto il giorno a dire “Sì, signore, glielo porto subito il suo fottuto bicchiere”»
«E quindi tu rubi alcol e bicchieri per equilibrare la tua stessa esistenza?» risi, scherzando.
«Oh, no, non parliamo di esistenza! Mai interrogarsi sulla propria esistenza. L’esistenza è una cosa data e non ci si può soffermare a rifletterci. Bisogna agire, spingersi sempre oltre».
«E dopo l’oltre?»
«Boh. Il nulla, forse».
Quello fu il suo primo discorso delirante che mi capitò di ascoltare. Ne ascoltai parecchi da allora. Due vite disastrate che si incontrano e danzano un valzer sulle note di una follia cadenzata da singhiozzi e bicchieri di rum.
La nostra cerchia si andò allargando, di tossici per lo più. Ce ne andavamo in giro bevendo e sputando sulla faccia della città che con il suo caos e la sua indifferenza ci rendeva sempre più ciò che eravamo: animali urbani. Esistenze sprecate lasciate annegare nell’indifferenza del mondo.
Ronda diceva di non interrogarsi sull’esistenza. Perché non farlo? Perché non arrovellarsi nel dare una spiegazione a ciò che siamo, a ciò che facciamo.
Mi guardo adesso, con le mani poggiate su queste barre di ferro, freddo. I sassi al suolo, in attesa di essere lanciati di sotto e di compiere il loro destino. I sassi avevano un destino, non tutti, certo, ma quelli sì! Il loro destino era quello di essere accolti tra mani sconsiderate e lanciati a compiere la loro parabola verso il fondo. I sassi avevano un destino, uno scopo. E io? Che scopo ho? Qual è il mio destino? Cosa significa la mia esistenza?
Ronda si gira a guardarmi, quasi immaginando cosa stesse accadendo nei meandri delle mie sinapsi.
«Non pensare», mi dice, «agisci!».
«Allora vieni con me. Seguiamo un destino. Spingiamoci oltre, come dici sempre tu»
«Che vuoi dire?»
«Seguiamo i sassi. Saltiamo e vediamo che succede»
«Vuoi buttarti di sotto?»
«Non lo so, sì, sembra la cosa più giusta da fare».
Ronda mi guarda come sempre inespressiva. Ubriaca e strafatta, come al solito. «Facciamolo!» Mi prende la mano e comincia a spingermi. Io la fermo «non devi spingermi, non sei tu che decidi il mio destino. Voglio farlo io. E voglio andare giù per prima…non ha senso aspettare, se devi saltare. Prima o poi tocca a tutti».
La vita fa paura, riflette nei suoi pozzi l’ipocrisia dell’essere. La morte è più naturale. La caduta. Il salto. Che bella fine! Un volo. Un volo da provare almeno una volta. Solo una volta, dannazione! Sarebbe bello volare per sempre. Saltare per sempre. Ma ormai ho deciso. Una volta, una volta e basta. Eppure… se solo si potesse volare per sempre…
«Forza, allora» mi dice Ronda «Conta!»
«Bene. Al mio tre!» esito. «Uno… due…»
Bellissimo Cri. Credo sia un ritratto reale.
Biiiii :) grazie. Da psicologa, dimmi, perché a me sembrano sempre cazzate quelle che scrivo? :D