Palermo: Le marce, le violenze, e (le nostalgie de)gli spidocchiamenti*

Molti storcono il naso quando parlo di psicologia e/è di comunità. Ormai lo so… Perché quando, nel migliore dei casi, lo psicologo è accettato come professionista della salute, lo è nel senso di figura che ti aiuta a stare meglio nel chiuso del suo studio. E così io ancora mi affanno a spiegare al mio compagno, ai miei amici ed ai più quell’intellegibile legame che unisce la psicologia alla comunità. Certo, non basta parlarne. Però aiuta! Sicuramente aiuta me, intanto, insieme a quella teoria della personalità che ho fatto mia e che dice in definitiva che “l’uomo è fatto di mondo”, che la sua carne è impastata con l’Altro significativo (mamma, papà, fratelli, zii, nonni, cugini, vicini, amici, etc.), con gli agenti atmosferici della sua terra, con la sua lingua natìa e con quella dei nonni e delle bisnonne, con i soli della Sicilia per noi o le nebbie della Padania per gli altri. Ecco: già questo mi aiuta a spiegare che ho degli ideali che non concernono solo la mia realizzazione personale e portfoliale, ma anche quella della mia città, per cui potrei arrabbiarmi e rimbrottare chi getta i mozziconi delle sigarette a terra o le cartacce dalle auto, chi si astiene dal voto, chi posteggia al posto dei disabili, chi è tutto “famigghia” e il resto può morire, chi dice sempre “ho da fare” quando c’è qualcosa per cui mobilitarsi e fare rete. 

Sì, lo so, non è l’epoca della rete né della psiche = mondo sociale. Ma qualcuno in un grande gruppo in C.o.i.r.a.g. ha detto che “la comunità è dentro, non fuori, se c’è…”, ed ecco, io sarò anacronistica di sicuro, ma questa cosa in qualche modo la sento. Non c’è molto da intellettualizzare, né da partigianizzare. E so che è difficile da capire, perché la comunità non arriva un bel giorno a trovarti sui suoi 2 piedini, non bussa alla tua porta. Io sento questa cosa, ma per mio padre, il mio zito ed alcuni amici non si poté ben capire perché sabato 24 febbraio pomeriggio, primo momento libero dopo oltre 2 settimane e con un concorso alle calcagna, ebbi l’irrefrenabile, irrazionale, impulso di chiudere libri e pc e di catapultarmi da sola ad una manifestazione cittadina.
La suddetta manifestazione, aspramente criticata (e non del tutto a torto) per via dell’aggressione di un esponente dell’estrema destra da parte di vari esponenti dell’estrema sinistra palermitana, è stata tanto dibattuta e discussa: le aleggiavano addosso sms della polizia, allerte meteo e non meteo, elicotteri, spettri di violenze a profusione, dispiegamenti di forze, terrorismi psichici, sciarre con genitori e amici e timori eventuali. In sintesi, si attendevano scontri e anch’io avevo un po’ di paura, ma anche il desiderio di riconoscermi in quell’”insiemità” antifascista e non violenta che da troppo i miei dafari mi negavano. Perché a volte la comunità diventa una trama bucherellata dalla maglie larghe e tu provi a restare in bilico lì dentro, arrampicandotici addosso a fatica, lottando contro un mondo individualizzato che impedisce di vedere la collettività ed anzi la guarda con fastidio, pretendendo economicità, prestazionalità, efficacia ed efficienza… Beh, lì ti perdi a tratti e nella dispersione e ti senti solo. E lì io soffro, mi alieno, mi sento quasi inetta, inutile, ignava, a pensare solo a cosa cucinare per cena, a quando pulire il bagno, a come arrivare a fine mese, a studiare, al lavoro da trovare.
Così, mi catapulto a piazza Verdi: so che devo. Inizio a guardarmi intorno ed ho sempre meno paura. Riconosco qualcuno, poi marcio da sola: ho bisogno di sentire la mia individualità nella comunità, i loro fluidi scambi, i prodotti che ciò germina di volta in volta in me. L’aria è frizzantina, io sto bene e canto “Bella ciao” a fior di labbra come faceva mia nonna quando ero piccola, insegnandomela attraverso la comunicazione dei nostri occhi verdi.

Eppure non è facile, perché di nostalgia in nostalgia, di desiderio in desiderio, sono arrivati anche i momenti violenti. In effetti i giornali non ne hanno parlato. E di cosa dovrebbero parlare d’altronde, dato che non ci sono state bombe, risse, cariche e manco lacrimogeni? Eppure una certa quota di violenza circolava nell’aria ed io la vedo quando mi accorgo di essere guardata, spiata ossessivamente, io e la comunità che era con me. Essere fotografata, filmata, forse anche schernita o commentata da dietro le vetrine di ferro & vetro sprangate fa un certo effetto, sì. Fa un grandissimo effetto cantare pensierosa mentre da dentro negozi dalle saracinesche abbassate gli acquirenti dalle braccia ripiene di pacchi ti dirigono contro il loro flash. Fa un certo grande effetto rabbioso, depressivo, violentante: sei allo zoo e c’è in atto un “voi contro noi” o “noi contro voi”. Una violenza assurdamente bidirezionale. C’è per chi va bene così, per chi l’Individuo isolato è quasi più appetitoso, prestante… E quindi chiudiamolo fuori o dentro, tenero topolino in gabbia che guarda stupide tigri che passeggiano nella Savana: separiamolo, proteggiamolo e facciamolo sentire migliore! Facciamogli leccare i carnivori baffi! D’altronde, per alcuni “pensarsi con gli altri è un impaccio, un limite”; “nella nostra mente c’è l’Io e Il Mio! Non il noi!”.
Con addosso questi sguardi puntuti, io cammino e non mi fermo, ma a volte mi emoziono: non sono lì per questo e l’amaro dell’ansia mi sale in bocca e mi si conficca nello stomaco. …Che succede? Che senso ha? Cos’è? Scherno? Invidia mascherata? Paura? Voyerisme? Perché quelle foto? Siamo in un momento topico? E’ una sfilata di sfigati da fotografare? Mi giro. Chi sono gli animaletti da osservare? Ci sono alieni da studiare? Forse morti che camminano? Chi sono questi guardoni ab-usanti? Ho paura di nuovo: potrebbe scoppiare ADESSO una guerra dei poveri, perché c’è un “noi” VS un “loro”! Ma chi sono “loro” per noi? E “noi” per loro?

Fa un certo effetto, sì. Per consolarmi, nei giorni successivi ho letto Dante, ma sarebbe facile fermarsi lì. Oltre, ho sentito lo “specchio riflesso”; la paura di loro che erano noi e viceversa: la paura sconcertata di quella parte di noi perduta nel qualunquismo o nella sopravvivenza chiodata, curiosa, ma di quella curiosità sterile e di moda che non diviene creatività, né simbolo, né poiesi. “Loro” si passeranno le foto su instagram, whatsapperanno e ok: fine. Ma per me, resta che è stato doloroso e violento, che ho visto una fetta di me a cui non si poteva arrivare né con le parole, né con il dialogo, poiché si era chiusa preventivamente in una moderna trincea: lontana da chissà quali bombe o microbi di pensiero. Ed io mi sono sentita ferita, perché “loro” saranno stati gli ignavi dell’anti-inferno, forse; ma dentro di me eravamo “noi contro noi”. Lacerati. Persi nella vittoria economicista della separazione dentro-fuori, alto-basso, amico-nemico.
Persi, perché, “in ogni caso, il discorso sulla salvezza non può essere individualistico! Uno non si salva, non da solo, non se 100 muoiono!”. La clinica e l’umano non possono non tenerne conto. Devono tenere conto che “comunità” è (sarebbe) tenere insieme le differenze e darvi valore”.

Dunque, dovremmo prenderci cura di questa fetta di noi, frantumare le vetrine infrangibili, sguainare le saracinesche, condividere, ricongiungerci… piuttosto che fotografare a nostra volta e distanziare.

La comunità sarebbe, mi dicono, anche “spidocchiamento” reciproco. Mi manca, anche da professionista; e per questo, su: chiudetemi fuori dalla vetrine della MIA città. Non nasconderò che fa male.

*Riflessioni ispirate al 24 febbraio e alla sua agorà Palermitana ed al 2 marzo e all’agorà C.o.i.r.a.g.

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