E’ uno dei miei mood del periodo. Non credo siano i 35: ne ho parlato parecchio con le mie nuove rughe che, certo, non mi piacciono; e però me le sono guardate e per alcuni versi le ho anche un po’ volute bene. Cioè, non esattamente i solchi, ma quel processo per cui, guardando insieme ai miei nonnini le foto di 10 o di 4 anni fa (loro, nella vecchiaia, adorano guardare fotografie!), vedo una me più liscia ma anche più ingenua, più ragazzina, ma anche meno consapevole, più fresca, ma anche più illusa.
Oggi le mie rughe mi guardano dall’alto e mi dicono delle cose lentamente; tipo, dicono, che il tempo che passa non è perduto, semmai è acquistato in saggezze, desideri, realizzazioni. Che sarà pure un tempo affaticato, sovraccarico, un tempo di troppo e a volte nemico, ma anche un tempo donativo di conoscenze, di esperienze e di maturazioni, come il rum o il parmigiano. Ne parlavo proprio oggi di quanto sia strano guardarsi dall’esterno e trovarsi un po’ donna, oltre che sempre bambina, ed anche un po’ professionista, quasi-psicoterapeuta, che per me significa anche in grado di quasi-realizzare il sogno di quella bimba di 13 anni che, evidentemente, se ce l’ha quasi-fatta, è invecchiata magari non troppo male.
L’invecchiamento, allora, può esser fatto anche di conquiste e di mete; e non so come sia possibile, ma davvero, se la vedo così, alle me rughe da collo e da espressione voglio un po’ di bene.
Comunque sia, tutto cresce o, se vogliamo, raggiunge fisiologicamente un picco e poi decresce e a poco a poco declina: case, piante, persone, animali, yacht, suv, cellulari. Possiamo prenderci cura di tutto questo o rifiutarlo o denigrarlo, ma a quanto pare in ogni caso avverrà e aggiungo che non è facile accettarlo, né su di noi, né sugli altri. Ad esempio, mi rendo conto che il ticchettio del mio orologio biologico che fa il conto alla rovescia e il rammollirsi delle mie membra non sono comodi e manco gradevoli; che la memoria atrofica dei miei nonni mi ferisce, quando non riesce a intenerirmi; che i miei capelli bianchi sono antiestetici e le mie pillole della pressione intollerabili; che Anto che si addormenta sul divano alle 21 è insopportabile; che i parenti con un dente in meno al giorno mi turbano; che il muso sempre più bianco del gatto di mia suocera mi fa paura e che mi fa soffrire la prozia ricoverata in ospedale e mi angoscia il pensiero che pare ieri, ma è 10 anni ad agosto che mia mamma non c’è più.
Eppure, ad essere cresciuta con due anziani, qualcosa di dolce, insieme ai timori, permane in me come una discreta eredità che mi è ricordata dai loro baci: che tutto sta in come invecchiamo o seguiamo il nostro processo. Vorrei vivere bene, senza rimpianti… che non significa immancabilmente spararsi la vita con sesso-droga&rock-n-roll quotidiani… ma magari coltivare un altrettanto sballoso “conosci te stesso” e, da qui, i propri bisogni e desideri autentici; che forse significa anche coltivare un mondo migliore, e non una schiavità timotica sottoposta all’influenza di altre menti e mode; che forse significa pure darsi la possibilità di essere soggetti di pensiero autonomi, creativi, in grado di prendere posizioni, di dare un significato al mondo in modo attivo e di essere promotori della propria salute presente e futura, per lo meno.
Oggi forse, se solo smettessimo di concimare un individualismo capitalistico teso solo all’accaparramento consumistico, ci sarebbe una cultura adatta a farlo, ovvero a coltivare e a coltivarsi.
In passato, invece, si pensava a sopravvivere, a portare la pagnotta a tavola e, se avevi successo, a lavorare come i pazzi per accattare case e palazzi alla moltitudine di figli che l’assenza di preservativo&co. aveva generato. Questo è stato quello che ha fatto di due persone travagghine e generose come i miei nonni; due persone che sono diventate famose e che, alla fine del loro processo, non si sono più curate di se stesse per lavorare fino agli 80 e oltre anni. Due vecchietti che, alla fine della fiera, sono ancora oggi trattati come strumenti di potere da parentame vario che neanche ho voglia di definire. Due corpicini fragili e confusi circondati da genti che, invece di preoccuparsi del loro decoro e della loro serenità, li usano per affermare la propria supremazia sul prossimo, rendendoli inconsapevoli oggetti/soggetti di nascondimenti, bugie e sofferenze altrui. E ancora, due “anziani bimbi” dai visi piccoli e minuti che rappresentano per me quell’umanità passata che mi ha dato un futuro. E allora anche quando li trovo mal vestiti, con gli abiti rammendati o con gli angolini della bocca sporchi di caffè… tutte cose che loro mai avrebbero voluto per se stessi… ogni volta che ci sono menzogne, urla e cattiverie intorno alla loro persona… tutte queste volte io gioco e rido con loro, ballo col nonno, progetto di portarli nei loro posti del cuore o nei miei e gli dico che vorrei fargli un nipotino, ché tanto ormai sono vecchia anch’io per rimandate troppo e vorrei tanto che lo/la conoscessero. E allora mia nonna, che ha dimenticato pure dove vive ma non quanto le voglio bene, mi dice, negando ognuna delle mie rughe: “picchì, tu unn’hai 15 anni?!?”.
Ecco, oggi la cultura di un benessere che chiamiamo “crisi” per comodo di improvvisati politicoidi potrebbe permetterci di coltivarci e di invecchiare meglio, di fermarci per conoscerci e per meglio conoscere per tempo chi ci circonda, di curarci di quei nostri desideri che dicevamo e di prevenire decadimenti nefasti promuovendo salute quando è ora di farlo, e non quando “il troppo tardi” ci porta a sviluppare desideri onnipotenti.
Questa, sui miei 35, è la promessa che faccio a chi mi ha regalato il futuro mentre cantiamo “Cincillà” o “Osteria numero 1”: di vivere meglio, curandomi, pensando e rallentando quando posso, per crescere, invecchiare e morire bene e di pensarli, anche nella loro vecchiaia alienata, così: “proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno”, che “continuano a svilupparsi finché non sono più visibili, anche se il movimento continua a livello impercettibile”, lasciando “dietro di sé qualcosa dell’esperienza della propria vita, un qualche tratto, un frammento di saggezza, una guida, una virtù, una consolazione che viene trasmessa ad altri”: “una trasmissione silenziosa, gentile e immateriale che si attua da un individuo all’altro” (Yalom I., 2017).
quanto sei saggia, emina <3 per me resterai sempre la ragazzina sbarazzina del corpo basso di Lettere :)
Penso che la vecchiaia sia uno dei periodi più delicati, e mi piace usare delicati anzichè tristi, proprio per cercare di accettare questa fase che avanza e che, se fortuna vuole, dovrebbe abbracciare tutti. A volte ci si arriva, a volte purtroppo no. Fortunati? la vecchiaia mi trasmette un misto di paura e curiosità, ma di sicuro c’è che tutti gli anziani dovrebbero avere dei nipoti come te e Grisù; ritenersi fortunati di aver vissuto una vita lunghissima e per nulla scontata, chiudere gli occhi a 100 anni, andando a dormire con un sorriso sulle labbra prima di addormentarsi.
Un abbraccio.
Grazie ragazzi…
Sono ancora, in parte, quella del corpo basso di Lettere… più rugosina (: