Cosa ce ne facciamo di un contenitore vuoto?
In una vita/casa affastellata, cosa ce ne facciamo?
Chiaramente lo riempiamo di varie. Sì, mi sa che di varie qua e là ne abbiamo un po’ tutti: loro attendono ansiose di essere collocate dentro il contenitore vuoto, anch’egli a sua volta ansioso di accoglierle.
La quotidianità oggi è ingombrata da slogan & mascheroni di scena: tirapeli specifici per i più svariati orifizi, massaggiatori ascellari, pettinini da inguine, “resort per il relax instagrammabile” , storie di finta vita, s.p.a. in cui ognuno recita la sua parte, bacheche con sfide tra influencer, ché poi uguale uguale è in grande la politica (ovvero: “indovina lo slogan!”); e c’è il corpo che è immagine, palestra o al massimo tradizione, in mezzo a farmaci-guru e a riti & miti resi cartongessi da Sky o Mediaset Premium, mentre per la tv dei povery resta l’ologramma alluciato della D’Urso; e ci sono le domeniche al centro commerciale con l’aria condizionata e le esperienze colte riempitive. E poi tante varie robe altre, sul cui sfondo resta il contenitore. Penso alle scatole cinesi a pois o a fiori da 2 euro e 50, abbandonate nei nostri camerini o armadi piene di vestiti-da-cambio-di-stagione. Robe ben contenute, come il cranio contiene le cervella e con esse i pensieri e il senso delle cose. Ma “la differenza tra la realtà e la finzione è sottile come la carta”, leggo a proposito di Magritte. E noi siamo dei narratori di storie: ce le raccontiamo spesso; non per dare senso, bensì per riempire, insieme a oggetti finzionali, la “vuotezza” del Sé-2019, il cui “poco” sembra essere risolto dallo stile di vita “acquistante”. L’acquisto compensatorio, d’altronde, è basato su valori che enfatizzano il CONTENUTO simbolico dei beni di consumo, considerati qualcosa da cui dipende il valore personale. Basta riempirsene e siamo a posto!
Pensare che è tutto qui è però inconsistente, a volte addirittura tracotante e perculante. Non a caso, nei nostri studi psicologici arrivano in tanti, colmi di tutto questo e pure di male di esser-ci, di starci in mezzo; non sanno qual è la loro domanda, accampano sintomi terrifici pur di collocarsi da qualche parte, pur di non vedere con gli occhi il vuoto di soggettività. E non c’è da minimizzare, ma solo da accogliere: c’è un dolore in tutto questo, c’è un dolore nel vivere giorni ed eventi che di per sé non sono forniti di senso e che semplicemente accadono; le persone ne soffrono, pur non sapendo bene di cosa! Mi chiedo: Quanto possiamo tollerare come esseri umani-2019 di re-stare intimamente dispersi? Quanto possiamo aspettare, ottimi mangiatori di brioches con gelato in un cosmo in cui manca il pane, per porci il problema degli altri modi in cui vivere? Per porci il problema del nostro stesso posizionamento nel mondo? Per porci il problema del contenitore e dunque in sintesi di noi stessi?
Soggettivarsi è doloroso. Lo è (doloroso) occuparsi di chi siamo, della nostra autenticità e non di quella da “Uno nessuno Centomila” che restituisce immagini plurime, instagrammabili anch’esse e non armoniose, se non strumentalmente. E lo è (doloroso!) quanto più realizziamo di aver dentro un vuoto e di averci pensato a partire da un sintomo terrifico di facciata – panico, terrore della morte, ossessioni onnipotenti, dipendenze da sostante e da non sostanze, relazioni masticanti, etc. -, e dunque di averci forse pensato “tardi”.
“Dolore”: questa parola si può nominare, ci riguarda, fa parte dell’esistente. Riempirsi a dismisura per non vederlo è solo un trucco! Eppure non è mai troppo tardi per concentrarsi su se stessi… Lo sforzo di autodeterminarsi, disse un mio mentore, prevede di bere questo calice amaro. Su questa penso ad un caro paziente di 68 anni. Che storie! Che vita! E alla fine arrivare ad occuparsi di Sé… e attraverso questo Sé degli Altri: la storia più importante di tutte!
…Un vuoto che si occupa di se stesso allora forse non resta tale: a fatica, ferito, dolente e infangato come in certi incubi che mi raccontano, scopre di non aver bisogno di essere riempito e distratto come una scatola cinese da 2 euro e 50: lei non nasce per questo, lei è ignorante in termini di funzione: lei E’ una scatola-contenitore che, se animata, sarebbe chiamata a occuparsi di se stessa! E quindi Lui, il vuoto lì dentro, cioè il componente principale delle cervella identitarie del contenitore, se solo volesse/volessimo potrebbe essere un luogo che sceglie di pensare e di restare vuoto: uno spazio di r/esistenza, una fertile, Rivoluzione Francese… Siciliana… Ghanese… che, insatura e coraggiosa, può occuparsi veramente di Sé.
Argomento molto complesso, sempre attuale, da 6 personaggi in cerca d’autore, dove i personaggi sono più autentici degli attori che cercano di interpretarli, ai selfie che inondano le bacheche di apparente felicità, specchio deformato della realtà che ci costringe a paragoni inesistenti. Forse ogni volta che cerchiamo di riempirci nel modo sbagliato finiamo per svuotarci di più.
Commento milto pertinente e interessante, soprattutto da parte di un ing. :) presto magari ne parliamo in carne e ossa!
P. S. Sul tema ci vedo una bella vignetta!
Io riempio i miei contenitori per aver la sensazione di star facendo qualcosa e di godermi appieno questa breve, brevissima, vita.
Eeehm. Artefatti, mi vien da dire?