Ultimamente succede che, dati i vari movimenti della mia odierna esistenza, io debba trasportare dei mobili entro una data ics da Cinisi al mio nuovo studio di Palermo. E accade precisamente che, sapendo questo da tempo, io mi accordi 1 mese prima col mio trasportatore “di fiducia” per questa “semplice” faccenda. Tuttavia, quando lo chiamo per concretizzare la cosa, il tizio non risponde; e non risponde per giorni! Anzi: una volta risponde in sua vece la moglie, che dice che lui richiamerà (cosa mai avvenuta). Quando finalmente riesco a rintracciarlo, dopo aver avuto la certezza che non è un desaparecido, ma solo uno bello tranzollo, lui afferma sciacquato che alle ore 18 gli è troppo tardi per travagghiare; replico che noi, a nostra volta, finiamo di lavorare proprio a quell’orario e che non riusciamo a fare prima; “e allora niente!”, risponde lui lasciandoci in asso sempre tranzollo. “Ma dice vero?”, mi chiedo guardando il muto telefono; “beh, ha riagganciato, quindi sì: dice vero!”. Serro i denti esterrefatta.
La data a quel punto slitta, ma ok, non siamo così rigidi e Piano B di fretta e furia: un furgone “imprestato” e un collega di lavoro del mio compagno risolveranno! Troppo bello per essere vero, così giustamente il collega fa bidone anche lui all’ultimo minuto. Mi trema l’occhio, sempre come al famoso scoiattolo dell’era glaciale che non riesce a ricongiungersi all’amata ghianda. Sono n’anticchiedda irritata dalla stronzaggine della gente che non tiene conto delle altrui problematiche, ma ok. Piano C di fretta e furissima: pensiamo per ore se chiedere aiuto a un amico; alfine ci decidiamo e lui dice subito di sì: miracolo! “Ma non è che il problema era nostro, ché ci pareva male chiedere?”, ci domandiamo stupiti e tutti contenti… Boh, e comunque viva! Così, all’orario concordato per l’imprestamento del furgone, il mio compagno si presenta all’appuntamento insieme all’amico e… trova il furgone indisponibile e pieno di munnizza. A quel punto, SS. Pazienza e Piano E: si attende. Io sto a Cinisi ad aspettarli dalle 18 alle 21 senza che nulla si muova, cerco la buona stella, le chiedo di risolvere; finalmente vengo a sapere che il mio compagno e l’amico sono stati bloccati per ore finché non hanno gentilmente scaricato loro stessi l’immondizia altrui per poter usare il furgone promesso. Intanto io mi preoccupo: mi pare male per l’amico e per la sua compagna incintissima che ancora ci aspetta a casa per cenare insieme e si sarà forse già sbranata i piedi dei tavolini. Mi sento, insomma, a disagio… “Una volta che chiediamo un favore, quel povero Cristo è bloccato con noi dalle 18e30!”, dico imprecando. Quello che non dico (e che penso) è che non avremmo dovuto chiedere di essere aiutati; penso pure che, come a volte accaduto in passato, il nostro aiutante se la mutrierà e io mi sentirò mortificata, anche perché il pesto di pistacchio&funghi che avevo millantato invitandoli a cena avrà sicuramente portato la mia amica a non preparare nulla per loro, col risultato finale del divoramento di tutti i mobili di casa sua: danno su danno e magari lei mi vorrà meno bene e io sarò tremendamente siddiata. “Forse era meglio non chiedere, bisogna cavarsela da soli…”, penso. “…Ma come, se io sono mezza sciancata?”. Misteri della fede: la chiudo con me stessa così.
Quando il mio compagno ed il nostro amico arrivano a Cinisi, il quadro è invece un altro: il nostro amico è sereno e le mie reiterate scuse sono quasi superflue. In 10 minuti terminiamo di caricare la roba e abbiamo anche il tempo di fargli vedere (di corsa) la nostra futura casa. Gli piace! E non sembra neanche infastidito dalle camurrie inattese del pomeriggio, anzi: è contento per noi! Mi sento sollevata e stupefatta. Arriviamo a Palermo e finiamo il mini-trasporto intorno alle 22; lì mi torna il dispiacere per il pesto di pistacchio andato affanculo e per il bidone della cena. Ringrazio molto. Sento la mia amica, che potenzialmente ancora ci aspetta, mi scuso anche con lei e ribadisco quanto io sia grata. Lei è serena e risponde semplicemente “Avete fatto bene a chiedere, la comunità altrimenti cos’è?!?”. …Stupore. Sacro stupore e sorriso in viso. La cena la recupereremo!
Ora. Che cosa va in cortocircuito nella mia mente per cui penso di disturbare l’altro? Sicuramente la mia “educazione” familiare, in cui ogni favore andava elemosinato e poi ricompensato o in cui non ci si poteva fidare dell’altro-da-sé (trasportatore finto-desaparecido docet). Ma cosa crea una “educazione” così anti-comunitaria? Forse la becera cultura per cui l’Altro, che sia il tuo vicino o il tuo collega o il tuo amico, è un potenziale invasore fastidioso da tenere alla larga e da confinare ben lontano non solo da te, ma anche dai tuoi paletti?!? Beh, che ben vengano i paletti, ma la distanza, l’Altro come peso… cosa comporta? Separatezza, impossibilità di far fronte comune, dinamiche ingroup-outgroup/amico-nemico/mors tua, vita mea, io VS tu… E niente sale o medicine al bisogno!
Io non so se la vicenda di cui sopra si è risolta bene perché l’amico che ci ha aiutato non è italiano, e dunque magari ha un senso diverso (maggiore?) della comunità. Mi piace in parte disperarmi pensando così. Ma a un’altra parte di me piace pure sperare che NON sia così.
Di recente il mio prossimo vicino di casa mi ha detto che gli piacerebbe che con noi non fosse come con i dirimpettai, cui è impossibile pure chiedere una cipolla. La mia attuale vicina, d’altronde, mi stupisce con la sua solidarietà e dolcezza, che ricambio di cuore. Poco fa tuttavia, montando i condizionatori in studio (dopo 1 mese passato a richiedere tutte le autorizzazioni del caso), una condomina ha bussato aggredendomi con boria, poiché a suo dire lei è padrona di 3 appartamenti della palazzina e deve decidere lei (e non l’amministratore di condominio, cui noi abbiamo umilmente chiesto) cosa si può fare e cosa no! Non so se è utile aggiungere che ho dovuto impedirle fisicamente di entrare in studio per fermare il “mio” operaio.
Il fatto è che questi casi nella mia quotidianità vanno per la maggiore. E ok: a volte i confini tutelano, ma davvero si può vivere così? Con questa gente guerrafondaia che non vede l’ora di farti capire quanto tu sia di disturbo e o superfluo? Davvero siamo al punto di essere ritenuti (o di pensare di essere ritenuti) di peso l’uno per l’Altro? …Che tipo di mondo stiamo creando, senza la dolcezza dell’empatia, della gentilezza, della comunità? Chiediamocelo!
* di Anne Herbert.
C’è da riflettere! La cultura che ci hanno inculcato. Io, ad esempio, se posso fare le cose da sola, non “sconcico” nessuno. Ma se una cosa non posso farla da sola, allora smuovo mari e monti! E’ il senso di “debito” che ci frena. Senza fermarci a riflettere che nell’atto di gentilezza altrui, si può nascondere un piccolo moto di felicità. Io sono felice se riesco ad aiutare qualcuno!
Sì, ma il difficile forse è ricevere, per persone come noi almeno. L’inno alla sacra indipendenza (fittizia, poiché si è indipendenti solo se si sa dipendere…), l’idea di essere un peso se si dipende… e invece magari è solo accettare un limite!
Forse la cultura attuale ha trasformato lo scambio “fraterno”, comunitario, in debito (che dunque va evitato)? Se così fosse, l’esito è allentamento dei legami sociali, sigh & sob. …Altro che rivoluzioni…