Per il contest “COVIDecameron – Storie in quarantena”
Giuseppe di Agorà e la donna sulle strisce di via Marchese di Villabianca.
All’inizio di tutto questo sono corsa da Agorà (non ho stampante da anni) e tra i file in stampa ho cafuddato 3 copie del secondo modello (ehi fu) di autocertificazione. D’altronde con la loro carta ho fatto gli ultimi 15 anni: tesine, elaborati, esamini, appunti, la prima laurea, le fotocopie delle dispense, poi dei libri per risparmiare, le bozze della seconda tesi, tutte le copie per la commissione, moduli vari, la fase dei materiali per l’abilitazione, le locandine per Abattoir e tutte le cose del collettivo, le robe per Formidee, gli amici inviati lì per loro stessi, tutto quello che mi è servito per la C.O.I.R.A.G., le 7 tesi di specializzazione, in mezzo i primi biglietti da visita e qualche foto personale, la scelta della carta giusta, le copie fronte-retro della carta d’identità, il mio primo timbro.
Giuseppe mi conosce, non è uno solo scambio di denaro: è uno scambio di fiducia. Io da parte mia chiedo sempre “come va?” e mando i miei cari saluti nelle mail con gli allegati da stampare …che loro mi preparano e mi tengono pronti di lato perché sanno che vado eternamente di fretta. Ora che sto fuori città questa familiarità mi manca, ma ci sarà sempre una storia dietro, una costruzione, me lo hanno detto loro stessi in mezzo alle code chilometriche che di solito hanno: “noi ti abbiamo seguito…!”. Lì mi sono commossa. Anche questi sono legami, e i legami mi commuovono sempre nella loro incredibile capacità di restare. Quindi Giuseppe apre il file, mi guarda, sorride pacioso coi suoi capelli bianchi gonfi e disordinati (ma lisci!), lo chiude e ne apre un altro: “te la faccio da quella per mia figlia, è il modello giusto!”. Resto senza parole. Sorrido. “Grazie” dico e non dico con un evidenziatore verde nuovo in mano. C’è una storia. Per fortuna c’è una storia.
Nel secondo caso passeggiavo intorno allo studio in una piccola pausa post-pranzo. Se ho un po’ di tempo, tra una seduta on line e l’altra cerco di camminare, anche facendo il giro dell’isolato… cose che prima mi sarebbero sembrate follia! Ma quando stai ore e ore con gli occhi sullo schermo e il collo teso a piccione, attentissima a mantenere i giusti livelli di telepresenza, in quei casi il sole e le gambe in movimento ti ricordano cosa è la vita; quindi nelle pause vado. Stavo appunto tornando indietro, e per la precisione attraversavo le strisce in via Marchese di Villabianca; ovviamente al rosso mi fermo; di fronte il vuoto e soprattutto, al centro, una donna africana con al braccio una sciarpa che sta per cadere. La sua visione in mezzo al silenzio è bella: lei è spontanea, non ha paura di respirare, come me non ha la mascherina e si muove lenta e senza panico… la trovo splendente, l’unica che vedo con questo atteggiamento; ammiro la sua presenza semplice, come se lei sola sapesse di essere nel mondo, col passo giusto, con la cadenza giusta, sotto la pelle e al sole. Nessuna fila nevrotica, nessun metro mentale: bella, nel mondo per come è. Sono secondi: ci incrociamo sulle strisce, non so se dirle della sciarpa ma più che altro mi sento rapita da una lei circondata dall’aurea del sacrosanto silenzio stradale – il silenzio! Il suo miracolo! -… Sono secondi: lei mi dice lenta “Ciao…”. Sorrido e ricambio, avrei voluto dire “grazie”: perché si è accorta di me, perché non ha avuto paura di incrociarmi e di sorridermi, con la semplicità di tutto questo e senza sentirsi in dovere di essere ministeriale. Mi è sembrato tutto sensato per un minuto… le strade ancora di asfalto, ma sensate: vie, direzioni, persone; non tappeti di macchine. La gente che si accorge l’una dell’altra e che si ricorda di sorridersi.
Può succedere di tutto in Sessantena. Tipo ricordarci che ci siamo dimenticati i veri tempi di un passo, il piacere del fermo-immagine sulle cose e su di sé, il senso di noi stessi e dei barili di cui raschiamo i fondi. Ci sono stati mesi, anni, in cui dovevo scrivere in agenda anche le colazioni con gli amici… forse tornerò a farlo per mantenerle importanti. Il punto però è che ci sono stati mesi, anni, in cui non ho scritto di ricordarmi di respirare per decenza.
Si può imparare in Sessantena, e non mi riferisco alle pizze, ho cucinato per eserciti, ma non ho panificato. Si impara tipo a stare da soli per piacere, oltre che per necessità, a separarsi, a ricongiungersi, ad ascoltarsi, a sentire le emozioni, a ragionare per opposti, a dissociarsi per attutire i colpi, a tenere duro, a restaurare mobili, a pensare a tutto questo, a usare Zoom, a lasciarsi dopo anni, a mancarsi, a curarsi, a impazzire per non accorgersi di cosa accade, a impazzire per il ritorno degli animali nel mondo, a impazzire di orticaria per l’epifania emergenziale della parola “comunità” sui cartelloni pubblicitari (prima sostituita econocraticamente dall’IO), a impazzire per l’opportunità, finalmente/esclusivamente di fronte a certe morti, di fare politica e di passarci pubblicità dotate di umanità in tv. Si impara addirittura a scoprire quanto è utile e insufficiente la tecnologia e quanto siamo carne relazionale, quanto sono importanti i corpi e gli Altri se non ci sono o quanto pesano politicamente parole come “distanza”/”distanziamento”. A farsi in sintesi qualche domanda sui barlumi di paradiso e sulla nostra capacità a preferire l’inferno.
Sono bellissime riflessioni e anche commoventi.
Dobbiamo sempre imparare da tutto. Sia nel bene che nel male…
“La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”…