A Palermo finalmente ha aperto booq. Non faccio parte del gruppo che ha costruito – passo dopo passo e (a quanto ho sentito) avendo fatto tesoro di una robusta storia di attivismo – questo presidio di quartiere. Eppure scrivo consapevolmente la parola “presidio” e nel farlo penso ai Nazgûl e alla loro faccia vuota. Inoltre penso anche al loro verso acutignolo e tremebondo, e uso la parola tremebondo in riferimendo al suono “tr”, che mi sa di “arrizzata di carni” (quella che provo quando compaiono, pur essendo solo un film), e al suono “d”, che mi sa di molle eco delle carni che tremano. Il pensiero dei Nazgûl si ricollega inoltre alla faccia ossuta e massiccia di un tizio che questa estate mi ha preso per il collo. Il fatto fu questo:
Poiché grazie al bonus vacanza sono andata in vacanza e grazie al Covid per ogni cosa, anche in vacanza, bisognava fare una fila, stavo in fila per la cena. Giustamente, l’italiano in fila è irrequieto, figuriamoci se deve indossare la mascherina. In ogni caso, eravamo in fila. Davanti a me una signora normalissima e compita, dietro di me un tizio alto e massiccio che si agita e che, appena arrivato, se la prende col cameriere al di là del plexiglass: dall’al di qua, lo apostrofa siddiato e nirbuso, chiedendogli perché fa avanti e indietro; pare discretamente arraggiato (e dire che la fila era piccola e veloce!) e insinua che lo sta saltando, che non rispetta la fila. Mi giro, pare un tirannosauro in costume, mi colpiscono le nasche enormi, le scruto dal basso: sono larghe e lunghe insieme. Intanto, il cameriere risponde sicuro che sta solo seguendo la linea per impiattare ciò che gli viene richiesto dalla cliente, e che per questo fa avanti e indietro, ma – puntualizza – non salta nessuno; così, termina indifferente di servire la signora. La prossima sono io! Mezzo minuto dopo questo scambio, mentre io pregusto il mio plumcake alla zucca, il cameriere si libera, il tizio decide lestissimo che è il suo turno e… mi salta. Cioè, proprio mi scavalca! Rimango basita. Penso. Mi dico di evitare: pace, vacanza, tregua, arrenditi. Ma il tizio la fa proprio vastasa e a un certo punto è più forte di me… “Mi scusi, ma prima chiede di fare attenzione alla fila e poi mi salta? Toccherebbe a me…!”. Si volta ed è lui: un Nazgûl incazzatissimo poiché ho osato rivolgermi a lui e contrariarlo, manco gli avessi infilzato addosso lo spadino fosforescente di Frodo. Io di Frodo ho solo l’altezza, ma forse la mia voce che lo coglie in fallo e blocca la sua baldanza da filibustiere è proprio come lo spadino. Il tizio si agita ancora di più, mi dice che pensava fosse il suo turno, io rimango ancora più basita e gli chiedo con calma se non mi avesse visto e che mal che vada poteva chiedere… La signora davanti a me ci mette il carico chiedendogli per favore di mettere bene la mascherina, che teneva (come avrete potuto cogliere dalla suddetta visione delle nasche) sotto il mento. A quel punto lui sbraita e il cameriere lo ignora e inizia serenamente a servire me. Tutto sarebbe stato solo un siparietto se non fosse che 2 secondi dopo mi sento arpionare il collo lì, proprio lì dove la mia cervicalgia risiede e attende di farmi fuori al primo soffio di corrente. Immagino le unghie da tirannosauro su di me e il mio collo dolente spezzato. Mi si “ammollano” le gambe, mi giro e il tirannosauro sputa fumo dal naso e vuoto cosmico dagli occhi tremendi: “E a prossima vuota mànnami a to marito, u capisti?!?! Un ti permettere chiù, tu cu sì?!? …La signoooora…”. Qualcuno lo allontana, io tremo dentro e nelle carni per lo spettro dell’anelata vacanza rovinata, ho paura e già vedo “me marito” che si sciarria per salvarmi da una sicura morte da collo spezzato e la polizia che viene in hotel a interrogarmi. Per fortuna la sinergia tra il mio briciolo di lucidità residua e quella intonsa del maître ha la meglio e il tizio viene monitorato, redarguito e allontanato. La paura mi resterà per i rimanenti giorni, come le fantasie di agguato vendicativo all’urlo acutignolo e tremebondo de “Tu cu sì?!? …La signoooora…”. E d’altronde, nei giorni, il tizio piglierà ripetutamente aggaddo in piscina col bagnino, ad es. per opporsi alla necessità di spostare la sua tovaglia dalla branda al fine di favorire la sanificazione in pausa pranzo. Ebbene, brutto. Ho provato paura e rabbia e sentito di trasformarmi io stessa in Nazgûl, preda di pensieri come: “ma questa gente che ci fa qui?!?”. L’ombra della cieca rabbia sopravvivenziale.
Ecco perché servono i presidi. Per ricordarci che sulle cose ci si deve lavorare, producendo una cultura della comunità, dando un senso non punitivo e poliziesco alla mascherina e alle file, dando un senso all’Altro che non sia quello di mors tua, vita mea (in questo caso cena tua, NON cena mea).
Forse in questo senso Palermo apre tardi. Ma alla fine apre, come ieri. Ci vuole molta forza, ci vuole non perdersi, ma alla fine si possono aprire presidi, luoghi di difesa e di protezione. Ma da cosa? Bisogna chiederselo! Perché, invero, bisogna difendersi non dal tirannosauro di cui sopra (e credetemi, dirlo mi costa!). Bisogna essere forti, non cedere alle tentazioni fenomeniche e andare oltre! Bisogna invero difendersi dal vuoto cosmico che avanza, incarnato sì dal mio aggressore, ma – prima ancora – dalla febbre onnipotente di un personaggiucolo qualunque che insegna a sfidare il Covid e le vite degli altri su tutti i canali. E poiché non siamo Gandalf che col suo bastone magico risolve tutti i mali del mondo, ci tocca difenderci nel miglior modo in cui possiamo R-Esistere agli attacchi mortiferi del vuoto-Nazgûl, ovvero creando insieme presidi “politici” veri: luoghi che, come da definizione, sono “incontri” che sostengono una certa idea di comunità, di città e di politica: quella che si fa dal basso, con gli altri e dentro di sé, e che a partire da questo arriva, con pazienza, a curare e a costruire!