di Lorenzo Santetti
Come definire il futuro prossimo di tutti noi? Io personalmente utilizzerei la parola “incerto”. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che la mia generazione utilizza questa parola da almeno 15 anni.
Quante volte ce lo siamo ripetuto? Siamo la generazione che è destinata ad avere il futuro più instabile rispetto a quanto non lo abbiano avuto i nostri genitori, i nostri nonni e addirittura i nostri bisnonni.
Ci siamo sorbiti in pieno, ed in sequenza, le maggiori crisi globali dopo aver vissuto l’agio degli anni ’90 e inizio 2000, proiettandoci in un futuro che immaginavamo stabile, concreto, economicamente strutturato. Sentivamo che quando sarebbe arrivato il nostro momento avremmo conquistato il mondo, o quanto meno ci saremmo costruiti il nostro piccolo spazio all’interno di quello caotico, ma pieno di vita, che già ci circondava.
Poi è arrivato il 2001 che ha cambiato il modo di muoverci nel mondo. È arrivato il 2008 cha ha sconvolto l’economia mondiale. È arrivato il 2020 con la pandemia e una nuova crisi economica. Nel frattempo, abbiamo visto un mercato del lavoro svilupparsi non per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, ma nello sminuimento del loro valore, con contratti poco retribuiti, posizioni inadeguate, prospettive di crescita annullate.
Ci domandiamo, mi domando, cosa ci possa riservare il futuro, slegandoci dal momento presente. Ci siamo raccontati che andrà tutto bene, e continuiamo a vivere nell’incertezza, mentre i ricchi del mondo diventano sempre più ricchi e noi sempre più insicuri. Chiariamoci, non è invidia sociale, ma semplicemente l’osservazione di un sistema che, per come è strutturato, semplicemente non funziona più e che prima o poi collasserà. Harari in “Sapiens” ha osservato come il mondo abbia iniziato a progredire – e l’uomo a diventare un Dio – da quando ha sviluppato come modello economico il capitalismo. Da economista sono d’accordo con lui, ma il mondo reale, quello che tocchiamo con mano tutti i giorni, non fa altro che urlare che questo non è il modo in cui dovremmo vivere. Nonostante sia un mondo iper-connesso, con una tecnologia in costante progresso.
È il grande paradosso della nostra epoca: abbiamo a disposizione, mediamente, stili di vita che nemmeno i re del passato si sognavano, eppure sentiamo un perenne senso di vuoto. Va considerato, come insegna il Prof. Barbero, che in epoche storiche diverse dalla nostra la visione del mondo e della vita era profondamente diversa, e che forse problemi come quelli che ci poniamo noi oggi probabilmente nemmeno se li sarebbero posti. Tant’è che oggi ci ritroviamo con un bagaglio di conoscenze spropositato, ma con una precarietà che non si vedeva, almeno in Europa, dal XIX secolo.
Percepiamo già uno scontro generazionale tra i boomers e la generazione z, quella capitanata da Greta Thunberg. E noi? Noi siamo quella generazione che Tyler Durden in “Fight Club” aveva descritto alla perfezione:
“Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione.”
È arrivata la grande pandemia, l’evento storico che ci contestualizzerà e immortalerà nella storia dell’uomo, ma come ne usciremo?
Lascio la conclusione di questo pensiero ad un muro che ho incontrato per le vie della mia Firenze e che recitava:
“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”.
Siamo la generazione che per evitare di impazzire deve vivere il momento, deve vivere giorno per giorno.
Che ha pure il suo fascino, ma è come navigare a vista senza una rotta. Non sai dove andrai a finire
Borderline… e a poco a poco il filo del rasoio non diventa disagio o, peggio, disturbo che impedisce di accogliere le occasioni per (so)stare…!
È esattamente come mi sento io: incapace di cogliere ciò che mi si pone davanti