di Dora Pistillo
4 Novembre. Ancora molto verde tra i rami. Non mi piace. Anzi, mi inquieta un po’. Perché di solito ad ottobre iniziano a cadere copiosamente le foglie. O almeno a perdere clorofilla. Che poi, come lessi una volta in un articolo, succede che, complici la minore quantità di luce solare e l’abbassamento delle temperature, la clorofilla si trasforma in altro. Sostanze chimiche la cui composizione varia da specie a specie, in base alle peculiarità e con un ordine diverso delle medesime sostanze con colori che virano dal giallo paglierino al viola, giungendo al marrone. La tavolozza condensa in striature, puntinature, sfumature ed effetti sorprendenti in base all’esposizione solare e all’irrigazione interna alla singola foglia. Perché il succo è questo: la linfa che si espande a partire dal cuore della pianta attraversa ogni dotto per canalizzarsi nelle foglie e raccogliere l’energia per proseguire la propria vita.
Clorofilla ancora evidente nelle foglie significa che la pianta è ancora lontana dall’isolare il ramo dalla foglia, dal sigillare il nesso con la fonte energetica e questa lentezza nel ritrarre al nucleo i liquidi può essere pericoloso in caso di brusco calo delle temperature esterne.
Ricordo un paio di anni fa, le foglie dei pioppi su cui si affaccia il balcone sono diventate gialle precocemente, per via della scarsità d’acqua. Praticamente al limite della sopravvivenza, la pianta non aveva forse liquidi a sufficienza per giungere ai rami periferici. Un gran peccato. Perché la pianta spende molte energie per crescere e aumentare il raggio reticolato delle sue radici – la cosa che alla fine trattiene il suolo dal dilavamento quando piove. A parte il rischio che le foglie secche prendessero fuoco con le alte temperature, cosa rara ma possibile, la circostanza è un grande rischio per la pianta. Una pianta in meno è una tristezza ed una perdita di cui pochi si rendono conto. Purtroppo.
Mi addolora aver lasciato l’insegnamento, ma non riuscivo più a procedere. Di solito le cose si spiegano tramite slogan o con lenta e insapore pedanteria. A volte sono affidate alla retorica consunta e viziata dall’estrazione ovvia di chi ha potuto studiare e che ovviamente ripete cose che gli sono ovvie. Si dovrebbero mettere ad insegnare persone che hanno superato in qualche modo l’ostacolo della dislessia, perché comprendano lo studente che non sa a chi chiedere aiuto davanti ad un testo indecifrabile. Ci vorrebbero matematici che conoscono bene la discalculia; storici dell’arte ipovedenti che possano rivelare le trame nascoste del dire con i materiali, cantanti ipoacusici che lascino trasparire la potenza del respiro e della costruzione, del ritmo che soggiace ad ogni espressione sonora ovvia.
Le persone per lo più si accontentano della superficie. Non si accorgono di ciò che circonda e dei segni condotti.
È doloroso per un ragazzo, poi, crescere con una disparità inconciliabile tra l’entusiasmo trasmesso a scuola per le cose insegnate e la totale anestesia respirata a casa. Genitori muti e sordi nelle loro emozioni che portano avanti lavori che non capiscono pienamente, preoccupazioni che non sanno discernere fino in fondo, solitudini inestricabili e mescolate a emozioni illeggibili e relazioni che costruiscono più per adempimento al diktat di un costume sociale che per reciproco riconoscersi in una folla; perché per riconoscere un altro bisogna almeno conoscere sé stessi.
Una foglia è appena caduta. Non cadono foglie verdi, perché affinché vi sia l’abbandono di questo potente strumento è necessario una chiusura dei dotti quasi totale, sufficiente perché il peso della foglia, mossa dal vento sia portata al suolo.
Dovrebbe accadere così anche per il resto. Una vita dovrebbe essere fino a quando il suo compito è concluso, fino a quando un’altra fase è in attesa, la decomposizione per nutrire le radici.
Bellissimo. Sono completamente d’accordo sull’insegnamento, serve immedesimarsi in chi è l’uditore o questi non carpirà mai la vera essenza della materia, diventando un semplice raccoglitore di nozioni.