di Dora Pistillo
Le occasioni perse, quelle rimandate, le vesti scolorite dal sole, il suono del vento che agita i panni stesi, le carezze raggrinzite, le foglie trascurate e avvizzite.
Le scie bianche tra i ricci neri, in sogno i piedi pesanti, le scarpe strette, il letto sfatto, la gatta che si vendica.
Petali delle scorse primavere appisolati tra ragnatele impolverate, la bottiglia vuota, i segni che ha lasciato sul tavolo. Le finestre opache, il pavimento segnato. Tutto da rifare. Le maniche girate, le braccia grosse e le dita gonfie e rosse.
Un’unghia scheggiata, un’altra sporca sotto, una macchiata d’inchiostro. Una chiave vecchia che non ricordi più cosa apra, il rumore di fondo di un neon, un ronzio sommesso che non fa dormire, la spazzola da ripulire, mentre si aspetta primavera.
Ma non si aspetta primavera, no. Si sta immobili, sapendo che arriverà, aspettando che passi. Che passi anche l’estate, che passi anche l’inverno, che passi il tempo. Il tempo che non sapemmo vivere e che pesa. Pesa come i seni che non diedero latte. Perché non si riesce a vedere più, dietro le finestre opache, i panni stesi finché non scoloriscono. Che le foglie cadano finalmente, che i capelli secchino e scompaiano. Che tutto torni a esser polvere per rimescolarsi con le urla dei bambini che giocano a palla, coi loro piccoli piedi sudati che sanno di leggerezza.
Che tutto torni a essere cenere, dopo il falò delle ore fredde, spazzata via dalla porta, via dal cortile. Che tutto torni a essere fango, che s’aggrappa allo stivale, che si lascia portare lontano, fino a che è consumato dall’attrito col suolo.
Lui le disse che non aveva bisogno della sua presenza, ma lei già sapeva. Lei disse che non s’aspettava nulla e lui non capì ch’era vero. Era vero, a lui non interessò e lei divenne polvere. Forse non era amore, ma allora a cosa è servito giocare? Cosa è servito nutrire desideri, cosa è servito camminare nel vento, nella neve, nel fuoco, nel deserto? Cosa è servito rimanere come un papiro dimenticato che nessuno sa più leggere? Tornare per un istante bambina. Il sangue secco su un ginocchio sbucciato, l’acqua fresca che scorre sulle mani piccole e morbide, il solletico sotto le braccia, un ciuffo spettinato in cui si rannicchia una fogliolina nuova, delle gambette che non smettono di danzare, l’odore della primavera. Che torna, che si spera, mentre a fatica si lava la finestra opaca.
Pensava di sé e di chi aveva conosciuto, che certe persone non smetteranno mai di giocare all’infelicità; non smetteranno mai di pensare che sia romantica l’infelicità, che sia interessante da esibire, che sia il segno di una vita vissuta per davvero, il segno della dignità, dell’innocenza, della bontà. Adombreranno il cuore dei giovani che incontreranno e si faranno maestri per la loro infelicità, la faranno pesare come fosse un dono speziato che si concede a pochi, ne faranno una cappa da gettare sulle spalle di chi malgrado tutto vorrebbe amarli. Si trasmette come un morbo, l’infelicità, basta essere sensibili quanto basta e un po’ sciocchini. Basta che l’alternativa sia l’edonismo sordo e violento, la vana messa in scena di cliché, di indumenti ricercati che non dicono nulla, i modi pacati di chi non ha nulla da dire o per cui adirarsi.
Lui le disse che non sapeva come farlo capire, che aveva provato – a farlo capire – ma che lei proprio non riusciva a capire che il problema era proprio… che lei non era interessante.
Una giravolta sotto la pioggia. Lei si domandava come avesse potuto illudersi che lui fosse una persona vera, viva, forte e non un fantasma della sua immaginazione. A cosa è servito? Aveva pensato che fosse un raggio di sole, che fosse una fortuna incontrare un amore così, che grazie a quell’amore aveva scovato gli inganni degli sconosciuti.
Ma niente, soltanto un soldatino di carta che prende fuoco senza nemmeno il tocco di una fiamma e lascia un odore leggero e appena acre che si dissolve subito.
Ricominciare da capo, dal capo, con una spazzola pulita, con una camminata fatta solo per respirare, con dei tomi di pagine vecchie da smaltire; che fatica, anche solo l’idea. Scrollare di dosso la finitezza silenziosa e sterile, le strade vuote e dissestate, il secco che anticipa il nuovo e il fardello dei giorni passati. Perdonare tutto e tutti; che vale un soldo bucato, il dolore. E chiedere perdono, sperando in un dono mistico, come una goccia di nettare che fa rigermogliare.