La piazza, come sempre, era affollata dalle bancarelle del mercoledì. La gente passeggiava, si attardava ora in uno stand ora nell’altro. C’era chi sedeva tranquillo in una panchina e chi chiacchierava al tavolino di un bar. L’ambiente era frizzante e impregnato dall’aria della primavera alle porte. Stavo seduta sotto il porticato del patio del mio bar preferito, che fa ad angolo con una delle tante vie secondarie di questo dedalo di stradine che si diramano dalla piazza come i fili di una grande ragnatela quando, ad un tratto, sento un trambusto proveniente da detta stradina. Mi giro incuriosita, attratta dalla cacofonia di passi e voci che stonavano con l’armonia di quel pomeriggio e vedo una fila di uomini in giacca e cravatta che con fretta sospettosa si infilano in una porticina di legno che sembrava immettere in una casa abbandonata, tanto era vecchia e corrosa.
Mi guardo attorno, cercando di capire se qualcun altro avesse avuto il mio stesso smarrimento e notato quel fatto singolare ma nessuno sembrava averci fatto caso: erano tutti intenti a godersi la giornata. Presa da un’angoscia mista a curiosità mi decido di seguire l’accaduto più da vicino. Mi alzo dal bar e corro nella medesima direzione di quei deservoir dogs imboccando la porta vecchia e consunta. Mi trovo dentro ad un corridoio scarsamente illuminato, faccio qualche passo in più e vengo risucchiata in un tragico inseguimento con tanto di pistole con silenziatori e nascondigli segreti. Inizio a correre anch’io, sì perché scappavamo. Scappavamo e gli uomini in giacca e cravatta ci inseguivano. Il primo viene fatto fuori mentre svoltavamo l’angolo di un altro corridoio. Il suo cadavere mi cade ai piedi e un altro uomo mi prende il braccio trascinandomi lungo un altro corridoio, la nostra meta: la prossima svolta. E così di corridoio in corridoio, lasciandoci dietro una scia di cadaveri e di pallottole schivate.
L’inseguimento finisce quando anche l’ultimo del gruppo viene fatto fuori. Non aveva fatto in tempo a svoltare l’angolo che una pallottola lo raggiunge al petto, precisa e silenziosa. Il tipo che gli aveva sparato portava una pettinatura afro e gli occhiali da sole. Si avvicina al cadavere, ignorandomi completamente, e ne constata la morte. Dopodiché fa retro front e sparisce dalla mia vista. Scossa per quell’avventura mi precipito fuori correndo. Si era fatto buio.
Per tranquillizzarmi inizio a passeggiare lungo la via principale che rasenta la piazza, tentando di dimenticare la scena che avevo appena visto, elencandone tuttavia ogni minimo particolare, e della quale non sapevo darmi spiegazione. Mi fermo davanti ad un negozio di abbigliamento, uno di quei negozietti di quartiere che vendono vestiti di tutti i tipi. Entro e saluto la commessa, mia vecchia conoscenza. Mi piace davvero tanto quel vestito a fiori un po’ boho chic ma non c’è la mia taglia. “Se vuoi te lo ordino e quando arriva lo vieni a ritirare”. Perfetto, sarebbe fantastico! Prendo i giusti accordi commerciali e chiacchiero con la commessa mentre è intenta a chiudere il negozio, vista l’ora tarda. Ci salutiamo: “Però non fare come l’altra volta che mi hai fatto mettere da parte quel pigiama e mi è rimasto in magazzino per un mese!”.
Riprendo a passeggiare nella serata che ormai volgeva al termine, sentendomi in colpa per quel pigiama.
Suona la sveglia.
Scenari di guerra!
Ma cosa rappresenterà quel pigiami? Abbisogna fermarsi?