di Dora Pistillo
È stagione, ragazzi. Opuntia ficus-indica. Hai voglia a dire che bisogna mangiare roba “locale” cibi “tradizionali” come non ci fosse mai stata una vasta, profonda e smaniosa contaminazione reciproca tra esseri umani dalle lontane latitudini fin dall’alba dell’umanità. Sappiate – a proposito – che il pigmento rosso, fino alla scoperta dell’America, veniva per lo più dalle zone dell’Armenia storica (la storia è lunga ed interessante, ma magari si approfondisce in altro sito). Poi, analogamente estratto da parassiti che tormentavano ed affliggevano proprio l’opuntia in questione. Che Ìndica, non dice altro dell’equivoco intercorso proprio in seguito alla missione del Colombo viaggiatore.
Ad ogni modo, se è vero che “Ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja”, un’oputia preferisce sempre coprirsi di rughe pur di destinare le migliori risorse idriche ai propri frutti. Ed è questo il senso di questa fotografia.
Che si siano importate le piante e che queste abbiano scoperto i vantaggi di un soggiorno mediterraneo inizialmente traumatico è cosa vecchia. Tanto che, ormai, molti non ricordano più che è l’infestazione iniziale tra xv e xvi secolo a dare avvio ad un fortunato apprezzamento gastronomico dei doni che fino ad oggi questa specie offre.
Ed il fatto che spogliato della propria custodia, apparentemente minacciosa, il frutto abbia un aspetto conturbante non dovrebbe far dimenticare che è solo il figlio di una succulenta. Che in quanto succulenta ha delle qualità di resistenza che rivelano il tratto di madre generosa. Una pianta versatile, disposta a molto, intelligentissima, a suo modo tanto colta e preparata al sacrificio quanto umile e parsimoniosa. È saldamente ancorata al suolo, ma le sue radici non vanno più a fondo di una trentina di centimetri, perché raccolgono l’acqua che rimane in superficie dopo brevi e sporadiche precipitazioni; raccolgono tutto ciò che possono, mentre le radici si avventurano in ampiezza, per questo spesso hanno il vuoto intorno.
È una pianta apparentemente semplice, in essenza una pala coperta di areole (fino a 150 per pala, ma quanto è sexy?), che nelle condizioni migliori si esprimono in nuove piccole paleidentiche alla prima e ripetono l’operazione ancora ed ancora. Stile frattale… Spero sempre che dopo aver letto quel che scrivo, qualcuno senta di deliziare il proprio appetito di conoscenze cercando qualche informazione in più. Perché quando scoprirete che esistono termini come (tessuto) meristematico, abbiate un sussulto che vi faccia balbettare, ansimando: “mmm-me-ri-ste-chèèè???”.
Insomma, la nostra opuntia è umile e non solo per il portamento e la condotta, non sparge la voce del prestigio riconosciutole dalla più celebre popolazione che si affermò suoi luoghi d’origine. Potete agilmente cercarvi la bandiera messicana e scoprite l’opuntia alla base di un’aquila reale che stringe nel becco un crotalo. Nopal o nohpalli, in realtà era uno dei pilastri dell’alimentazione delle popolazioni autoctone pre-colombiane, non solo per i frutti, ma per le pale che venivano preparate e consumate. Ove ora è sita Città del Messico, originariamente crescevano numerosissime varietà di opuntia, fu come trovare un paradiso. La leggenda narra che fu la visione di un’aquila reale con un crotalo fermato nel becco a segnalare il luogo in cui poter fondare la base geografica della civiltà atzeca. La bandiera riprende il “Teocalli della guerra sacra”, un monolite il cui retro mostra l’opunzia, in tutta la sua opulenza, che sbuca dalla bocca di una divinità.
Che coincidenza! Proprio oggi ho estratto il succo di 1kg di fichi d’india. In pratica succo di madre avida… Oltre ad essere buonissimo, con l’strattore si separano bene buccia e semi dal succo (che viene molto denso). L’ha bevuto anche la mia piccolina e l’è piaciuto molto!
Eccellente!
Curiosissima!!!